mercoledì 23 novembre 2011

Daniele Tenca Live For The Working Class



Ricordate i Blasters? Quella band incredibile, la band dei fratelli DaltonDalvinAlvin. Phil e Dave Alvin, band di Los Angeles dalle origini rockabilly ma ben presto portabandiera del Rock Americano con la maiuscola, in qualche modo gli eredi dei Creedence dei fratelli Fogerty (di San Francisco). Avete presente i Blasters di No-Fiction, 1983, il loro capolavoro, il disco nato in un'officina grondante grasso? Ecco, mischiatelo con un po' della New Orleans di John Campbell ed un pizzico dello swamp rock di Tony Joe White e avrete il sound di Daniele Tenca, Indiana (Lombardia). Daniele, bella voce profonda, era il frontman dei Badlands. Lo scorso anno ha debuttato con Blues For The Working Class, che ha portato in tour con la Working Class band. Live For The Working Class è il risultato di quel tour, anzi di una data registrata a Milano nel dicembre dello scorso anno.
Il disco è notturno, lucido, muscoloso, elettrico, bluesy. Come un disco dei Blasters. Si apre con l'ululato del loup garou con Cold Confort (una delle belle canzoni uscite dalla penna di Daniele) e segue in una sequenza impressionante con 49 People (dedicata alle vittime del lavoro) e una versione potentissima di Johnny 99 (alla Dave Alvin, da far concorrenza a quella di Johnny Cash, scusate se è poco). Prende fiato con una più lenta Flowers At The Gate da nebbia sul bajou e riprende con una strepitosa versione blues di Red Headed Woman (ancora di Bruce Springsteen) con una gran chitarra elettrica, anzi due. Un intro da bluesman consumato, non c'è che dire.
Poi ancora la Louisiana di John Campbell con Breach In The Levee con l'organo in bell'evidenza, e la sua Factory in blues. Un po' di laid back con He's Working, una ballata con Spare Parts e ci si avvia verso il finale con il classico John Henry che chiude in bellezza nel folk rock alla Seeger sessions.

Un gran bel disco made in Little Italy, che sarebbe grande anche se Daniele Tenca fosse born in the USA. Da ascoltare senz'altro.

(letto su BEAT)

venerdì 18 novembre 2011

Red Wine Serenaders D.O.C.



Gli americani hanno gli Old Crow Medicine Show, noi abbiamo i Red Wine Serenaders.

I primi hanno un tiro rock/punk più pronunciato ma i secondi rileggono la tradizione popolare rurale americana degli anni '20 e '30 con un amore ed una vivacità che li rende coinvolgenti e spiritosi anche quando recuperano una bacucca canzone di cowboy. Sono un caso più unico che raro alle nostre latitudini e anche l’Europa si è accorta di loro perché suonano spesso in Francia ed in paesi limitrofi ed oggi sono la più bella realtà europea in fatto di country-blues, ragtime, hokum e jug-band music.

Il nuovo lavoro non esce come il precedente a firma Veronica and Red Wine Serenaders ma solo col nome della band , a suggello di una maturità in termini di affiatamento e sarabanda collettiva che ormai, dopo quattro anni di lavoro, fonde in modo armonico le personalità, le complicità e i contributi individuali dei quattro musicisti coinvolti.
Musicisti di prima scelta sia nel feeling che nella tecnica, a cominciare dalla spigliata e spiritosa front-woman, la cantante Veronica Sbergia specializzata in ukulele, kazoo e washborad e poi dalla effervescente contrabbassista jazzy Alessandra Cecala, anche lei cantante e dai due chitarristi oltre che cantanti, il formidabile Max De Bernardi un vero maestro delle corde in grado di giostrare con brillantezza mandolino, ukulele, chitarre acustiche e resofoniche e Mauro Ferrarese un montanaro appassionato di chitarre e banjo che ha l’ardore di traghettare nella old time music dei R.W.S un background di provata fede rock.

D.O.C., il nuovo disco dei R.W.S è un cocktail di sonorità e feeling che portano in superficie una America rurale e profonda attraverso un crogiolo di musiche calde, coinvolgenti, evocative, misteriose e arcaiche ma ancora in grado di trasmettere emozioni se rilette, come fanno i Serenaders, con freschezza, imprevedibilità, rispetto e quello spirito guascone che li rende adatti ad interpretare i tempi moderni. Come per esempio It Calls That Religion, un testo di denuncia degli anni ’30 calato in una tematica oggi più che mai attuale..
D.O.C. è un piccolo disco di grande musica che diverte, accultura e racconta un pezzo di storia musicale americana con l’onestà, la bravura e la semplicità degli artigiani e l’allegria dei bevitori di vino.
Tredici tracce, ognuna una storia, ognuna un contante diverso, dalla spumeggiante Veronica Sbergia alla maliziosa Alessandra Cecala, dal disincantato Mauro Ferrarese al rigoroso Max De Bernardi. Si comincia con la jug music di On The Road Again e si prosegue con il divertente swing di Just As Well Let Her Go e con un classico del blues quale I’d Rather Drink Muddy Water dove De Bernardi mostra tutto la sua sapienza in fatto di corde acustiche. Out on the Western Plains è una gustosa ed ironica rivisitazione da parte della Cecala di un brano eseguito da Leadbelly (ma lo faceva anche Rory Gallagher) e di Leadbelly c’è anche Linin’’ track qui in versione lunare e country-goth degna dei primi 16 Horsepower.
Non mancano le ballate come la dolce When It’s Darkness on the Delta e la notturna Lotus Blossom mentre l’ukulele impazza nel vecchio traditional You Rascal You dove sembra di essere davanti ad una vecchia radio degli anni ’30 che trasmette canzoni da qualche WLAC di Nashville o da qualche sperduta stazione degli Appalchi .
In Did You Mean a firma Casey Bill Weldon c’è tanto sapore di Leon Redbone, in My Girlish Days c’è tutta Memphis Minnie con una superba interpretazione vocale di Veronica, 8, 9 & 10 è string-band music nella sue definizione più pura e Samson & Delilah è riletta in maniera corale come sarebbe piaciuto alla Seeger Session Band.

Old Time Music for Modern Times a denominazione di origine controllata, invecchiata in barile e pronta da bere. In alto i calici per i Red Wine Serenaders.
Una menzione speciale per il lavoro fotografico di Marcus Tondo che oltre agli scatti si è occupato anche dell’armonica.


THE RED WINE SERENADERS > D.O.C  (Totally Unnecessary Records)


MAURO ZAMBELLINI

martedì 15 novembre 2011

Route 61 Music




"Siamo lontani fisicamente, e non solo, dal sogno della Asylum Records, dove facevano musica insieme, scambiandosi le canzoni, Jackson Browne, Tom Waits e gli Eagles. Ma col cuore e col pensiero siamo un po’ da quelle parti... una piccola etichetta discografica, una filosofia precisa, un piccolo laboratorio dove ospitare artisti che si conoscono tra loro, simili tra loro, o con punti di contatto importanti. Il piacere di creare i prodotti che vorremmo acquistare, farli proprio come quelli che piacciono a noi".

Proseguono il sogno e l'avventura della musica made in Little Italy di Ermanno La Bianca & Friends, con l'etichetta indipendente Route 61. Americana made in Italy è il suo slogan.
Dopo For You 2 e Francesco Lucarelli, è la volta di un altro tris di proposte del rock che vive fra la via Emilia (o la via Appia?), il folk del nord e il rock del west.

Live For The Working Class di Daniele Tenca, dell'Indiana (o della Lombardia?), una testimonianza del tour con la Working Class Band, che si apre con una grinta (quasi) alla Willy. E poi i brani portati in concerto da Blues For The Working Class e qualche cover come Johnny 99 (a la Blasters, da sentire, magari su iTunes) e John Henry. Daniele è già un local hero per i suoi fan e il Live è il miglior souvenir da portarsi a casa dopo lo show. Un gran disco di rock & roll, potete leggervi la recensione di Zambellini.

Fathers and Sons è il disco che Donald MacNeill e sua figlia Jen, scozzesi in Italia, hanno realizzato con i pavesi Lowlands. Folk del nord ma anche una calda voce orecchiabile alla Cat Stevens.
Anche mia figlia me li chiede: papà, metti il papà e la bambina. Quella che vuole ascoltare è Fathers and Sons la canzone.

Among The Streams, dei Mardi Gras, romani irlandesi con molto springsteen in corpo. Rock delle chitarre con la ritmica della E Street Band, il brano speciale del disco è Men Improve With Years, una poesia di Yeats messa in musica, cantata dalla voce straordinaria di Liam O’Maonlai (Hothouse Flowers), anche se alla voce ufficiale della formazione, Claudia McDowell, non manca proprio nulla.

giovedì 3 novembre 2011

Lorenzo Bertocchini Francesco Lucarelli Antonio Zirilli Sergio Marazzi



Raccontavo, parlando di Alan Sorrenti, di quella straordinaria stagione attraversata dalla musica italiana nella prima metà degli anni settanta. Se fino ad allora la musica beat era stata solo scimmiottata dalle band locali, banalizzandola a livello di musica leggera, all’inizio dei settanta la cultura rock varcava finalmente le Alpi. I nostri musicisti erano ispirati dai King Crimson (PFM, Banco e tutta la quintalata di band prog mediterranee), da Bob Dylan (De Gregori, Edoardo Bennato), dall’elettronica (Battiato), e da tutta quanta la rivoluzione del rock, dai Napoli Centrale e Alan Sorrenti a Eugenio Finardi, Area e Perigeo. La voglia di rock era tanta, tanto di suonarlo che di ascoltarlo, e per un certo numero di anni tutto questo movimento fu molto popolare e persino ben ripagato commercialmente dal pubblico. Furono probabilmente determinanti le radio libere che spuntavano come funghi in ogni centro, grande o piccolo della penisola, come l’esistenza di un controcultura dotata di stampa (Muzak, Gong, ma persino il più popolare Ciao 2001) e di una industria musicale più rilassata e più legata alla passione che al business. Chi avrebbe potuto immaginare che le radio libere si sarebbero trasformate nelle vuote radio private di oggi e che l’industria dell’entertainment sarebbe diventata preda delle tragiche e sorde multinazionali di oggi?
Questa premessa per raccontare che esiste ancora una scena musicale rock italiana, magari più ispirata a Bruce Springsteen che ai King Crimson o i Weather Report, ma che si sostiene soltanto su una enorme inestinguibile passione senza avere una possibilità di un ritorno commerciale, per la mancanza totale di canali di comunicazione, ostaggio del mostro dell’industria della pubblicità. Si ha sentore dell’esistenza di musicisti rock nostrani a navigare per MySpace o FaceBook, o a leggere le pagine dedicate di qualche fanzine, ma poi chi può davvero ascoltarli se nessuno li trasmette? Come può un ragazzo andare a cercare una canzone di Francesco Lucarelli o dei Cheap Wine se nessuno gliel’ha fatta ascoltare ed amare?
Non che io abbia una conoscenza profonda di quell’universo musicale degli italiani nati al di qua dell’oceano ma che si sentono culturalmente di NYC, di Austin, di Los Angeles; insomma, un’Italia rock anglofona che da parte mia mi piace battezzare Little Italy. Però di recente ho messo le unghie su alcuni CD veramente belli di cui voglio raccontare in questo post, e credetemi, vi sto facendo un favore. Dischi suonati e registrati benissimo, con grande passione e con grande perizia, con belle canzoni e bei racconti, che non posso fare a meno di includere nei miei preferiti dell’anno. Magari non originali, ma era forse originale il blues che band britanniche come Stones, Animals e Them (sì, lo so che sono di Belfast) ci hanno insegnato ad amare? Ho effettuato un test: ho fatto ascoltare alcune di queste canzoni agli amici, presentandole come il nuovo album di Willie Nile o, a seconda, degli Eagles, e tutti quanti hanno drizzato le orecchie: “bella davvero, davvero in gran forma”… Farò lo stesso con i miei dodici lettori, proponendovi qualche titolo da scaricare da iTunes per 0.99 cent. Se lo farete, è molto probabile che poi andrete a cercare l’intero CD…

Il primo del lotto si chiama Lorenzo Bertocchini e la sua band sono gli Apple Pirates. Beh, se canti in inglese e la tua band si chiama Pirates, perché non stuzzicare il pubblico proponendoti come… Lawrence Bertocchini? Dunque, Lawrence non è un pivello di primo pelo; è on the road da un po’ di tempo, ha inciso altri dischi prima di questo Uncertain, Texas, ha suonato a New York anche a fianco di grandi artisti come il citato Willie Nile. Parlo di lui per primo perché bisogna concedergli un grande talento per il songwriting; le canzoni di Lorenzo sono belle, orecchiabili, rockin and rollin’, come quelle dei migliori cantautori d’oltreoceano. Il paragone che mi viene più calzante è con le orecchiabili piccole grandi gemme di Steve Forbert - se ricordate canzoni come Romeo’s Tune (o the Oil Song) allora sapete di cosa parlo. Everybody e Last Clean Shirt (l’ultima camicia pulita) sono un piacere, piccoli trascinanti hit che acchiappano subito l’attenzione; per di più la band e gli arrangiamenti sono niente meno che perfetti, roba d’una volta, tipo i recenti dischi di Ronnie Wood o Peter Wolf. Super rock & roll romantico, alla E Street Band che ascoltavamo sui solchi di The River.
You è il brano più orecchiabile e dolce del disco, un pezzo che se lo senti alla radio non puoi fare a meno di scriverti il nome ed andarlo a cercare dal tuo spacciatore di CD. Una canzone di cui Steve Forbert ha perso lo stampo, introdotto da un sax alla Big Man o alla Cortellezzi, con una band in ghingheri e grande spolvero. Se non l’ascoltate vi perdete qualche cosa. Blue, beh, lo prendo come una dedica, una ballata crepuscolare densa di romanticismo. Il disco è lunghissimo, ben quindici pezzi. L’atmosfera è quella, va dalla ballata orecchiabile alla citazione alle band dei primi sixty, le stesse delle cui cover vivevano Bruce Springsteen, Miami Steve e Southside Johnny nei club di Asbury Park. Pezzi come San Secondo hanno una melodia così appiccicosa che ti trovi a canticchiarla sotto la doccia. Una delle mie preferite è la stravagante My Serenade, che parte come un pezzo surf strumentale di quelli che piacerebbero a Quentin Tarantino, ma in cui la voce di Lorenzo si introduce come in un talking blues di Bob Dylan, recitando per la bellezza di otto o nove minuti la storia del suo amore, fino a svettare in un omaggio a Obama, De Niro, Gattuso, Spike Lee… e alla dedica finale a Danny Federici. La prima volta che l’ho ascoltata mi ha dato i brividi: grande Uncertain, Texas! La voce è bella e ferma, l’accento ottimo, i testi non li ho fatti ascoltare ad un americano ma mi sembrano plausibili, anche se l’anima di Lorenzo è quella di un trovatore medioevale che dedica sonetti alla propria perfetta dama immacolata. Bruce, Leonard Cohen, la country music e la vita ci hanno insegnato che purtroppo l’amore non è un affare così semplice.

Il numero due è Francesco Lucarelli, anzi, Frankie Lucarelli di Little Italy. Il suo Find The Light è un piccolo grande gioiello di cui non mi disferò mai, come i dischi più cari che ho incontrato in tutti questi anni. Frank non si ispira all'east ma alla west coast degli anni settanta, ed il suo lavoro mi ha portato alla mente il crepuscolare disco di Jack Tempchin che ho amato alle soglie del 1980. Nove canzoni, 38 minuti, come un vinile. Il brano da scaricare è Pictures On The Wall: se ci avessero scritto su “Eagles” avrebbe venduto dieci milioni di copie! Bello, orecchiabile, dolce, romantico, struggente, con i cori alla Eagles, alla Jackson Browne, alla CSNY, una canzone da ascoltare per lasciarsi andare anche ad una lacrima; con me funziona così. Tutto il disco è di quella pasta: Mr. Sunshine non potrebbe essere di fratellino Jackson Browne quando ancora scriveva belle canzoni? E la voce dei cori non è proprio quella di Graham Nash? Una di quelle canzoni che con altri tre amici cercavamo sulla radio attraversando l’America in auto da parte a parte sintonizzandoci sui canali country. Stranger In This Land è una bella cover, Good Day è struggente, con un grande coro, After The Twilight tira persino dalle parti di Van Morrison, Fat City è un duetto con Louise Capuani.
Un disco da portare in auto, infilare nel lettore ed ascoltare e riascoltare on the road senza sentire la necessità di cambiarlo per molto tempo. Per sognare la nostra west coast dell’anima.

Antonio, o meglio Tony Zirilli & The Blastwaves, è più un rocker tosto dalle parti del Greenwich Village di oggi, alla Willie Nile o Joe d’Urso o magari John Eddie. Il disco si intitola Trying To Get Out, il brano con cui si apre It’s Still So Hard To Be A Saint In The City: dichiarare le proprie intenzioni più di così non si può. Grande il piano, che rincorre Roy Bittan. I primi pezzi sono rock & roll d’effetto, ma un po’ convenzionali; il disco decolla davvero più avanti, quando il led del player segna 5, con One Big Lie (bye bye Sally), in duetto con Joe d’Urso allo stesso modo con cui il boss potrebbe duettare con Southside Johnny. Siamo in pieno campo delle citazioni (“bye bye Sally, Sally bye bye”), ma l’effetto c’è. Bella anche l’armonica.
Have I The Right è un pezzo serramanico alla Clash, con Willie Nile ospite. Flamsbana parla di treni, e alla fine è una travolgente versione di This Land Is My Land, ma quanto ci si diverte ad ascoltarla. Si può non ballarla?
Run Through The Rain, bellissima, è il 45 giri. Ancora citazioni e ricordi in comune: la chitarra sa di Love Hurts (Gram Parson), il refrain di Sweet Home Alabama, il pezzo è tutto da ballare.
Song For The Lonely la prendo per me. At Dusk un intermezzo alla Ry Cooder (Paris Texas) per introdurre Tacarigua de Mamporal, un pezzo affascinante con un coro sudamericano. I’ll Be There è puro rock romantico per piano e voce. Bello.

Un tris vincente di dischi che sarebbe un peccato non ascoltare, perché c’è dentro il rock che amiamo, nel modo in cui lo amiamo, suonato e cantato meglio che dalle band americane.

Un tris che potrei rendere un poker calando un altro disco da Little Italy: This Man, del grande Sergio Marazzi (già autore di No Man’s Land con i Blue Bonnets). Un disco più intimo e privato, che veleggia dalle parti di The Ghost Of Tom Joad e di Darkness On The Edge Of Town. Non è divertente come gli altri, ma è molto intenso (magari un po’ monotono), anche perché Sergio ha scritto le canzoni sulla propria pelle, cantando la dura esperienza della separazione, che lui ha vissuto allora e che io stesso vivo oggi mentre lo ascolto, e per questo forse lo sento vicino. Anzi, già che siamo sull’argomento, mi accorgo sto indossando una camicia di flanella e sono seduto su un divano di pelle esattamente come è ritratto lui sulla copertina. Vorrà dire qualcosa… La canzone che mi piace si intitola It’s Got To Be A Land. Ma tutte le 12 canzoni sono le storie di quest’uomo:

“ti guardo mentre ridi nel sonno
riempiendo tutta la mia casa di campane d’angelo
dipingi il mio giorno con i colori della tua anima
vorrei che non finisse mai”


“un giorno senza la tua grazia
è una sconfinata distesa di sabbia
un giorno senza il tuo viso
è un vagare in una terra straniera
un giorno senza il tuo amore
è questo uomo senza una casa
è un giorno orrendo, un giorno senza te”

mercoledì 2 novembre 2011

Cheap Wine Stay ALive



Centinaia di concerti, migliaia di chilometri, decine di corde rotte, di bacchette spezzate, fiumi di birra, abbracci stritolanti, risate incontrollate, personaggi pazzeschi, follia in libertà nel cuore della notte, esplosioni di adrenalina, energia a tonnellate, diluvi di sudore….. che cosa si nasconde dentro un concerto rock?”
I Cheap Wine tentano di spiegarcelo con questo doppio CD intitolato semplicemente ed eloquentemente Stay Alive! due ore di rock senza tregua con le chitarre a palla e i ritmi pazzeschi che ricrea la magia di un loro show con tanto di set acustico, ballate al neon e rock n’roll al serramanico. Registrato in tre location differenti nell’aprile del 2010 al Fuzz di Pesaro, allo Spazio Musica di Pavia e al Teatro Zeppilli di Pieve di Cento Stay Alive! è la dimostrazione che anche in Italia pulsa un cuore rock, basta cercarlo fuori dai circuiti ufficiali e nelle strade secondarie.
Nonostante il gruppo pesarese non possa contare su un budget da major e su amici che contano, con i mezzi tecnici adeguati alle possibilità e una produzione in proprio i Cheap Wine ce l’hanno fatta e ci consegnano un live che rimarrà nella storia del rock in Italia. Un live ben fatto, registrato come si deve, che trasmette a pieno la carica di un loro show ed esplicita con la ricchezza degli arrangiamenti i lavori ancora in corso nel gruppo che qui, con l’aggiunta del pianista e tastierista Alessio Raffaelli, raggiunge uno status di rock n’roll band internazionale. Stay Alive! non è solo il classico live che un gruppo mette in cantiere per coronare una carriera, e i Cheap Wine se lo meritano visto la lunga e difficoltosa strada percorsa ma più specificatamente è la misura di quanto questa band è maturata, migliorandosi e aprendosi verso temi e suoni che hanno allargato il loro range espressivo ed il loro set.
Due CD, più di un’ora ciascuno. Si comincia con una parte elettroacustica come nei recenti show del gruppo. Spirits ha lasciato il segno e ha portato nuova linfa al loro scenario musicale, le ballate sono avvolgenti e gli intrecci di chitarre acustiche una delizia. Just Like Animals, The Sea Is Down, Circus Of Fools, A Pig On A Lead, le riletture di Murderer Song e Among The Stones, una Nothing Left To Say che con piano e armonica si apre alla Jungleland e la rincorsa delle chitarre di Among The Stones creano uno stato di palpabile attesa con atmosfere sospese tra folk, blues, ballads e melodie avvincenti. Poi arrivano le chitarre elettriche e la storia cambia. Michele Diamantini sale in cattedra e i Cheap Wine sciorinano un rock crudo, folgorante, psichedelico a tratti, underground. Marco Diamantini tiene ferma la barra delle ballate ma è duro timonare una barca che è ormai una ciurma inebriata di rock n’roll. Sono sventolate elettriche in un vento di burrasca, Evil Ghost e poi Shakin’The Cage, un semi-punk lanciato a mille, Youngstown di Springsteen che parte riflessiva e lenta per poi trasformarsi in un urlo di ribellione con un crescendo ad hoc, ottima cover per un gruppo che non ha mai nascosto una sincera sensibilità sociale.
Devastante il secondo CD, qui i Cheap Wine non fanno prigionieri, sono duri, rabbiosi e metropolitani,figli dei giorni del vino e delle rose. Il pianoforte di Raffaelli è il valore aggiunto, un po’ lirico e un po’ honky tonk, le chitarre distorcono, basso e batteria martellano cattive, una dopo l’altro arrivano i classici del loro live set, da Dance Over Troubles, Time For Action e Freak Show presi dall’omonimo album a Snakes, Move Along e City Lights (il consueto ed esaltante piece de resistence chitarristico) presi da Moving, da Leave Me A Drain fino all’irrinunciabile finale corale di Rockin’ In The Free World. Un grande Live.

(letto su Zambo's Place

lunedì 31 ottobre 2011

Mauro Ferrarese > Wounds, Wine & Words



Wounds, Wine & Words letteralmente ferite, vino e parole, è un disco di blues acustico di sofferenza, euforia e parole. Ne è autore Mauro Ferrarese un tipo che sembra uscito da un festival di musica acustica della California post-psichedelica, capelli lunghi ingrigiti, pizzetto, look da montanaro, sguardo arguto e faccia simpatica. Abita nel Sud Tirolo ma ha fatto la gavetta a New Orleans dove ha imparato l’arte di arrangiarsi facendo il busker ed ha imparato la legge del blues. “La strada è il miglior palcoscenico per un uomo di blues” dice Ferrarese a chi gli chiede in quali festival ha suonato e così aiutandosi con la chitarra e con il dobro Ferrarese canta un blues spartano e felicemente parco che trae origine dal Delta (Son House è il suo maestro) e poi sconfina nel vicino Texas. Un blues scheletrico e primitivo ma non scolastico con una esecuzione pulsante e viva nonostante la strumentazione ridotta all’osso ed un allargamento verso il ragtime, il gospel, il di folk di Woody Guthrie e il country di Hank Williams.
Wounds, Wine & Words è un affresco di musica americana della strada che spazia dal fantasioso stompin blues di Frontdoor Blues, brano legato allo stile di Son House, al più oscuro Soul Train dove Ferrarese mette in luce il suo slidin’ ed una voce chiara, pulita, autorevole. Ipnotico come può esserlo un blues del deep south, SoulTrain è l’esempio delle molteplici facce mostrate da Ferrarese. Come scrive lo stesso sulla copertina del disco “il grande Son House raccontava nei suoi blues di una donna e di un uomo….io non ho molte parole se non in queste dodici tracce. 1 Thing nasce come elaborazione di un vecchio canto di lavoro che chiamavano Rosie, Earthquake e We’re All Alive sono nate nell’aprile del 2009 dopo una visita agli amici di L’Aquila. Le altre sono storie più o meno recenti che hanno attraversato la mia strada e dove ho incontrato anche voi”.

Parla la musica in Wounds, Wine & Words e i testi si fanno carico di un’ironia hanno che trasmette positive sensazione anche quando sono di scena l’abbandono, la sofferenza, la malinconia. Ma Mauro Ferrarese con la sua voce convincente, la sua pregevole tecnica col dobro ed il suo spirito sa essere un nostrano Leon Redbone che diverte con una musica dei vecchi tempi più di quanto non riescano tante moderne rock n’roll band.
Blues, folk, country di montagna ed una salutare ventata di old-time music, la stessa che Ferrarese sviluppa quando si esibisce con i Red Wine Serenaders (vederli assolutamente dal vivo), un concentrato di swing e buon umore con Ferrarese coadiuvato dall’ottimo chitarrista Max De Bernardi e dalle frizzanti Veronica Sbergia e Alessandra Cecala due musiciste e cantanti che con washboard ukulele e contrabbasso riempiono la scena più di un’orchestra. Se li trovate in giro dalle vostre parti non perdete il loro set.

Mauro Zambellini, dicembre 2010 (da Zambo's Place)