lunedì 31 dicembre 2012

Auguri!



Auguri di buon anno agli amici di Little Italy: Cesare Carugi, Cheap Wine, Francesco Lucarelli, Francesco Piu, Daniele Tenca, John Strada, Lorenzo Bertocchini, i Lowlands, Red Wine Serenaders, Sergio Marazzi, Veronica Sbergia, Max DeBernardi, Rocking Chairs, Mardi Gras, Ermanno Labianca.
Complimenti per i loro dischi del 2012, da Better World Coming a Old Stories For Modern Times, Based On Lies, Beyond, Good Things, Ma-Moo Tones,  Blues For The Working Class, Here’s To The Road, Live In Rock’a… e tutti gli altri.
Siamo sicuri di riceverne di altrettanto belli nel 2013.

domenica 23 dicembre 2012

Consigli di un cronista stonato agli ottimi musicisti di Little Italy



Bei dischi anche quest'anno, assolutamente. La scena del rock anglofono italiano è sempre ricca di passione e di talento. Ascolto i dischi nuovi di Cheap Wine, Lowlands, Bertocchini, Carugi e penso a quanto siano buoni. Però, siccome sono un rompiballe, e siccome qui su questo blog nessuno mi censura, aggiungo anche un po' di agro al dolce. C'è una solare passione che rende i dischi italiani davvero speciali in un panorama dove mestiere e marketing sembrano farla ormai da padroni. Ma, come direbbe qualsiasi allenatore di terza categoria, c'è spazio per migliorare. Così ho qui due consigli per voi ragazzi.

Il primo: la fantasia. Il rock anglofono di Little Italy ha dei riferimenti precisi. Più ancora di Bruce Springsteen e la sua E Street Band, siete un po' tutti figli di Willie Nile. Mica male, specie il suo mitico disco d'esordio. Però non è obbligatorio costruirsi degli steccati in cui restare, delle rotaie su cui correre, sia pure veloci e decisi. C'è stato un tempo, ed era un tempo meraviglioso, in cui i gruppi rock non si ripetevano, ma sperimentavano. Ogni disco era una cosa nuova, un'esperienza a sé. Una volta era la musica indiana, una volta la psichedelica, un'altra il jazz, ma insomma ogni volta era una cosa mai ascoltata fino a quel momento. Cambiavano persino il look, i vestiti e la pettinatura. Nessuna legge obbliga le canzoni ad avere tre strofe, tre cori ed un bridge. Si può fare di tutto, ed una volta si faceva, anche qui in Italia. Si può jammare, si può fare roba strumentale, si può non mettere il coro, oppure partire con quello e poi cambiare canzone, insomma, non ci dovrebbero essere regole, ma soprattutto non ci dovrebbero essere schemi prefabbricati al cui interno limitarsi a reinventare la ruota. Si può fare un concerto per macchina per scrivere e ottoni. Insomma, va bene il Jersey Shore, ma proviamo ad ascoltare anche Frank Zappa, i Beatles e Mike Oldfield, per citare i primi tre nomi che mi vengono in mente.

Consiglio numero due: il groove. Ogni volta che in auto l'iPod mi trasmette un pezzo italiano, aguzzo le orecchie. Sì perché il suono è accattivante, le note quelle giuste, l'atmosfera emozionante. Tutte le volte dico: che magnifica canzone! Poi succede che la canzone dopo due minuti è ancora uguale, e che dopo altri trenta secondi sono tentato di spingere il tasto "avanti". Il brano infatti non va in salita, ma si spegne in discesa. Una canzone non dovrebbe essere una ripetizione dello stesso tema per quattro minuti, le tre strofe tre cori e un bridge di cui sopra. Dovrebbe crescere. E ci sono due modi. O uno ha la voce con la personalità di Muddy Waters o di Bob Dylan degli anni sessanta e la sostiene come il vento un aliante, e questo si chiama groove, oppure si deve inventare qualche cosa. Il finale non deve essere uguale al principio. Il tono deve salire, gli strumenti aumentare, qualche ingrediente si deve aggiungere. Meglio di tutti se arrivano persino delle note nuove. Mentre pensavo queste parole ascoltavo una cover di Paul McCartney, un teso rock & roll intitolato No Other Baby. Il grande Paul inizia a cantarla con grande tensione, ma nella seconda metà ha un'invenzione: alza il tono della voce. E la canzone termina in un tornado, non sfuma nella noia. Facciamo un patto? Che non sfumiamo più nessuna canzone nel finale?

domenica 16 dicembre 2012

Non è stata colpa mia!



Ho scritto un lungo pezzo sulla scena di Little Italy, che 'doveva' essere pubblicato su SUONO di dicembre, con lunghe interviste e un sacco di collaborazione degli amici musicisti.

"È crollata la casa! C'è stato un terremoto! Una tremenda inondazione! Le cavallette! Non è stata colpa mia! Lo giuro su Dio!"

Abbiamo qualche problemino con la rivista, a causa del fallimento del distributore. Prima il pezzo per motivi legati allo spazio occupato dalla sezione hi-fi è stato spostato a gennaio. Poi il distributore è saltato, facendo saltare l'uscita di gennaio. Poi si è pensato di sdoppiare le linee di produzione, dedicando alla musica rock una rivista autonoma da pensare da zero. Dunque il pezzo è in stand-by. C'è, è bellissimo (grazie ai vostri contributi), ma ancora non si sa se finirà su un SUONO di febbraio, su una nuova rivista o cosa... ma voi sapete bene quanto io creda nella scena rock italiana 'anglofona' per cui nulla è perduto: il pezzo uscirà e farà il punto della scena. Ci tengo particolarmente a parlarne per primo in questi termini. Keep on rockin'. God bless you all. Blue.

P.S.: per fortuna non sono saltate le recensioni. Quelle ci sono...

mercoledì 14 novembre 2012

MUSIC IS LOVE a singer-songwriters' tribute to the music of CSN&Y


Raramente la discografia italiana ha prodotto un lavoro così ben fatto in termini di musica, di confezione, di note esplicative, di scelte artistiche. La passione per la musica di Crosby, Stills,Nash e Young ha indotto Ermanno Labianca, giornalista, discografico, autore di libri e fanzine su Bruce Springsteen, Francesco Lucarelli, musicista e Peter Holmstedt a concepire e produrre un lavoro che si staglia a livello internazionale per la qualità e la serietà del progetto. Music Is Love è un brillante anche se non altisonante tributo alla musica e alle canzoni di Crosby, Stills, Nash e Young. Attorno a loro è stato costruito un doppio Cd ottimamente registrato, elegantemente impacchettato e fornito di una ricchezza di note e di fotografia da far invidia ai migliori prodotti della Rhino. La passione scorre sotto il raffinato digipack in questione e la Route 61, la indie che lo  ha pubblicato, ha messo in campo  intraprendenza,  coraggio, gusto ed entusiasmo nel realizzare un lavoro che non è solo un elegante e curato oggetto estetico ma, come suggerisce il titolo, un atto d' amore verso la musica.
La celebre canzone di David Crosby del suo irraggiungibile If I Could Only Remember My Name serve da titolo ad un doppio Cd dove sono coinvolti cantanti e cantautori americani, irlandesi e inglesi, ognuno impegnato ad offrire la propria visione della musica di C,S,N&Y, canzoni tratte dal vasto repertorio dei quattro sia in gruppo, in trio, in duo, solista, coi Buffalo Springfield e coi Manassas. Il panorama è ampio e i due Cd invitano ad un viaggio che è un piacere dei sensi e della mente. I nomi dei singer-songwriters non sono tutti noti ma la lettura di ognuno è originale, sentita,  sincera, le registrazioni sono state fatte in studio a New York, in California, in Irlanda, a Londra, Liverpool e in vari centri degli Stati Uniti. Nel booklet interno ognuno dei protagonisti esplicita come sia entrato in contatto con la musica dei quattro ed il motivo della canzone scelta. La partenza è affidata a Ron LaSalle che con la sua voce roca offre una aspra versione folk-rock di For What It's Worth dei Buffalo Springfield, celebre e amato inno antimilitarista. Lo segue Steve Wynn con una spettrale e noise Triad , episodio che trova un giusto contraltare nella rilettura classica e toccante di Helplessly Hoping di Judy Collins aiutata dal piano di Russ Walden, dal basso di Tony Levin e dalle chitarre di Duke Levin. Della serie la classe non è acqua. L'irlandese Liam O' Maonlaì  ragala una rarefatta e nordica Lady Of the Island tratta, come la canzone della Collins, dal disco debutto di C,S&N.  Sugarcane Jane che altri non sono che la cantante Savana Lee Crawford ed il chitarrista/banjoista/cantante Anthony Crawford interpretano con taglio folkie e fingerpicking ma il finale è assolutamente psycho la stupenda Bluebird dei Buffalo Springfield mentre toh chi si rivede Karla Bonoff assieme alla collega Wendy Waldman e ai cantanti John Cowan e Mietek Szczesniak rifanno con inalterata delicatezza la sognante Guinnevere.  Elliott Murphy con la sua band di normanni sceglie Birds di Neil Young imitato da Bocephus King con una stralunata e persa nel diluvio Down By The River mentre i Venice, due cugini californiani coi  rispettivi fratelli che di cognome fanno Lennon, regalano una non memorabile After The Goldrush. La figlia di Stephen Stills, Jennifer si cimenta con la band e degli arrangiamenti di pianoforte, violino e violoncello in Love The One You're With rallentandola nella prima parte e poi lasciandola scorrere come una avvincente melodia rock.

venerdì 9 novembre 2012

Cheap Wine > Based On Lies


I Cheap Wine da 15 anni e 9 dischi sono (quasi) un gruppo punk, ma a dispetto di ciò (e del fatto che non portano t-shirts bucate) e del loro nome, la loro è una musica gourmet. Dopo tutti questi anni e tutta questa strada (queste canzoni e questi show) la loro musica è definitivamente personale 100% Cheap Wine DOC, e non puoi più dire Paisley Underground, Green On Red o Willie Nile. Però come in un prezioso piatto gourmet le loro canzoni, sempre belle e ormai sempre suonate con la maestria dei grandi, sono generose di gusti e retrogusti e sapori sottili, qui una slide guidar, qui un piano o un tocco d'organo che evocano ricordi lontani, titillano le orecchie e danno profondità all'ascolto. La band è in gran forma: una ritmica sempre urgente, che offre alle canzoni il senso dell'inno, una chitarra elettrica tagliente, e sopra ogni altro (a mio gusto) delle tastiere che corrono. Un sound pulito ed elegante come gli Stones del 1978 ma uno spirito indomito da garage band. Bella la voce (che in passato ha sostenuto senza difficoltà cover di Dylan), belli i cori, cariche le canzoni. Waiting On The Door, Lovers Grave, Give Me Tom Waits (give me cheap wine), potrebbero tranquillamente far parte del repertorio di band di culto come le New York Dolls o la J.Geils Band. Il sapore di The Big Blow evoca un affascinante folk rock elettrico metropolitano, mentre il piano di Alessio Raffaelli passa sulle canzoni un new coat of paint che in Based On Lies scivola persino nel jazz e nel blues urbano e in On The Way Back Home in una romantica New York City Serenade. Lost Inside è di quel garage rock che si amava nei Fleshtones dei primi due dischi. The Vampire è un lento notturno di Detroit; To Face a New Day si apre con una chitarra da Neil Young con i Crazy Horse; The Stone chiude l'album con una ballata dissonante e maledetta che odora della sabbia dei deserti del grande ovest di John Ford e dei Wall Of Voodoo.
Un gran bel disco, una grande band. Sarebbe un peccato ignorarli.

Blue Bottazzi

lunedì 5 novembre 2012

Better World Coming Lowlands and friends play Woody


Woody Guthrie nacque in Oklahoma il 17 luglio 1912 e morì in un'ospedale di Brooklyn il 3 ottobre 1967. Due dettagli non privi di significato, perché il primo ha comportato la partecipazione del folksinger alla migrazione degli Okie verso la terra promessa della California nella Grande Depressione all'epoca delle tempeste di sabbia degli anni '30. Il secondo ci è stato narrato nelle storie di Ramblin' Jack Elliott, Arlo Guthrie e Bob Dylan. In mezzo fra i due fatti c'è tutto il songbook delle canzoni politiche di Woody che fanno parte dell'essenza degli Stati Uniti d'America quanto "i parchi di Yellowstone e di Yosemite" (come ha scritto qualcuno). Ma non solo degli USA se i Lowlands, band di Pavia, non dimentica di celebrare i cento anni della nascita di Guthrie con un ottimo disco tributo, a cui partecipano amici del panorama musicale italiano. Perché le storie del singer dell'Oklahoma sono le storie della gente, le storie della working class e della gente comune di cui Woody è stato testimone nel suo girovagare, ed i tassisti Brooklyn, i portuali di NYC, i contadini dell'Ohio non sono persone diverse da quelle della Lomellina e di tutto il mondo. Better World Coming non è certo il primo disco di tributo a Guthrie, ricordo per esempio A Vision Shared, Til We Outnumber Them e Mermaid Avenue. Però è forse quello che si lascia ascoltare più volentieri, per più di un motivo: non soffre della discontinuità delle raccolte corali messe assieme da voci diverse, e non pretende di trasformare le canzoni di Guthrie in canzoni dei Lowlands. Nemmeno cade nella tentazione di suonare rauco e vintage come una registrazione degli anni quaranta; i Lowlands cantano con sincerità, onestà, trasporto ed intensità in un registro acustico che si concentra sull'essenza delle canzoni stesse e non sulla loro apparenza. E così si compie la magia di dare una volta di più vita ed attualità a canzoni scritte da un uomo di cent'anni fa che potrebbe essere ancora qui fra noi a piangere gli stessi problemi e lottare per gli stessi ideali. Per chi queste canzoni non le conosceva ancora e per chi le riascolta con immutato piacere.

(Blue Bottazzi - SUONO)

sabato 13 ottobre 2012

Lowlands


Partiti da Pavia nel 2008 con The Last Call, Top 10 sul portale USA Miles of Music, 4 stelle da Maverick e 9/10 da Americana UK e un articolo in prima pagine sul Corriere. Nel 2009 esce l'EP VOL.1. sempre 4 stelle in UK, che ha passaggi sulla BBC, e tour in giro per l’Europa. Nel 2010 sono in Studio con Chris Cacavas e fanno Gypsy Child e poi incidono Soul Driver sul un disco tributo a Springsteen di Ermanno Labianca For You 2. Suonano in Irlanda e in Galles.
Un giornalista di Q magazine scrive che i Lowlands fanno al genere Americana quello che Sergio Leone ha fatto ai western: lo rendono impolverato e più credibile.
Nel 2011 producono e suonano su un disco folk con Donald MacNeill pubblicato in Italia dalla Route 61.
Nel 2012 incidono due dischi: uno dedicato a Woody Guthrie trasmesso in più occasioni anche dalla BBC. Poi Beyond prodotto da Joey Huffman, appena uscito, distribuito anche in UK e Irlanda dalla CARGO (Giant Sand e Brian Jonestown Massacre). Ora sono il Galles. La recensione a presto.


“A qualcuno potrà sembrare strano suonare e ascoltare sulle rive del Ticino una musica che pare più adatta a una stellata notturna sopra a una highway deserta, fra il Kansas e l'Alabama. Ma Edward, di madre inglese e padre italiano, sorride all’idea di etichettare e rinchiudere le note entro dei confini geografici. «La nostra musica è un ibrido. Per semplificare possiamo ricondurla al genere "americana", che è una mescolanza di rock, country e folk. Ma la verità è che il bagaglio culturale moderno non ha confini geografici, il linguaggio della cultura americana in particolare è arrivato ovunque attraverso film, musica e letteratura. Figuriamoci se certi fenomeni non potevano arrivare a influenzare un "bastardino" come me, che ha imparato a parlare l’inglese e il francese prima dell’italiano e ora vive nel centro storico di una città della provincia lombarda».
(Francesco Segoni, Corriere della Sera, 17 marzo 2009)

lunedì 8 ottobre 2012

Hard Travelin'



WOODY GUTHRIE'S NIGHT   LEONCAVALLO   21 SETTEMBRE  2012

Lo vedi lì magro, ossuto, fragile con la chitarra con su  scritto "questa macchina uccide i fascisti" e pensi sia solo uno di quegli altri disperati magari anche comunisti che lui cantava, uno di loro, di quelli che fuggivano le tempeste di polvere dell'Oklahoma e del midwest per andare a cercare la terra promessa nell'ovest, in California, la terra del lavoro e del sogno americano.

Più tardi arriva a New York e la definisce "una città di poliziotti, predicatori e schiavi"  dove se Gesù predicasse ancora come faceva in Galilea, lo inchioderebbero di nuovo sulla croce. Testimonia la rinascita economico che il new deal porta nel depresso nord-ovest e scrive la sua canzone più famosa This Land Is Your Land che ancora adesso tanti americani credono sia una canzone patriottica. Vive le speranze antifasciste della seconda guerra mondiale, compone canzoni sulla storia del movimento operaio americano, canzoni per i bambini, canzoni sulla amata Ingrid Bergman perché  Guthrie non era un santo e nemmeno un eroe, gli piacevano le donne e il cinema, Stalin e il vino, era guascone e aveva un caratteraccio.  Vive gli ultimi anni alle prese con una terribile malattia del sistema nervoso, la chorea di Huntington che lo costringe infermo a letto in una clinica ma ancora lucido. Sentendo le sue canzoni ci si accorge che l'America di allora è ancora così adesso ed è forse la ragione perché ci sono stati così tanti Woody's children, figli di Guthrie, a cominciare da quel tipetto arrivato dal Minnesota a trovarlo quando già era ammalato in clinica. Scrisse per lui Woody's Song si chiamava Bob Dylan anzi Robert Zimmermann e trovò nella musica di Guthrie un linguaggio semplice e diretto per parlare della dignità dell'essere umano, la cosa più grande della vita come diceva sempre Woody. Poi arrivarono tanti altri, Phil Ochs, Billy Bragg, Bruce Springsteen, Steve Earle, John Mellencamp, Ani Di Franco, Utah Phillips, qualcuno noto altri sconosciuti, tutti a cantare una musica che potesse migliorare la vita e gli esseri umani.
Cantare le sue canzoni senza dimenticare le sue ragioni questo è il messaggio che ha lasciato Woody Guthrie e Veronica Sbergia (ukulele, autoharp,voce), Max DeBernardi (chitarre e voce), Massimo Gatti (mandolino) e Dario Polerani (contrabbasso) hanno ricordato attraverso un concerto imperniato sulle sue canzoni, un set toccante e coinvolgente dove il materiale di Guthrie è stato interpretato con spigliatezza e freschezza nonché  con l'usuale bravura tecnica del quartetto. Il feeling, le voci e gli strumenti hanno contagiato il centinaio e più di presenti, trasformando il Leonka in un club dell'East Village. Suoni cristallini, impasti  vocali magnifici, l'atmosfera pura del folk senza le pesantezze del rigore a tutti i costi, anzi il brio e l'ironia che anche Guthrie metteva nella sua musica e che Max, Veronica, Massimo e Dario hanno riversato nelle loro interpretazioni. La Woody Guthrie's Night di venerdì 21 settembre al Leoncavallo,  un appuntamento snobbato da molti addetti ai lavori che si precipitano non appena è di scena l'ultimo degli sfigati d'oltreoceano ma non si accorgono che alle nostre latitudini c'è chi interpreta la roots music ad un livello eccellente, è stato il modo migliore per ricordare e far conoscere uno dei più grandi poeti della musica popolare americana. Sono cento anni che Woody Guthrie è nato ma la sua musica non ne risente, i quattro hanno fatto vivere lo spirito e le ragioni della sua musica offrendo una versione musicale ricca, suggestiva, colorata anche quando era la polvere la protagonista delle storie, supportati dalle immagini che scorrevano alle loro spalle, dalle eloquenti letture di  Michele Buzzi che con dei flash approfonditi ha commentato l'opera di Guthrie e dalla recitazione dei testi delle canzoni da parte del Gruppo Teatrale Leoncavallo.
Una serata assolutamente fuori del comune, uno spettacolo che, si spera, possa avere delle repliche.

Mauro Zambellini, Zambo's Place 

mercoledì 18 aprile 2012

Greg Trooper Band & John Strada




14 aprile 2012 Teatro Sala Polivalente di XII Morelli (Ferrara)


Ancora una volta gli emiliani hanno dimostrato che cultura e gusto della vita possono andare a braccetto e in questo non sono secondi a nessuno. Hanno messo in piedi in un triangolo di strade e di campi al confine tra la provincia di Ferrara, Modena e Bologna, in paesi che nella loro rurale desolazione ricordano l'ambientazione de L'Ultimo Spettacolo sebbene attorno pulsa inconfondibile la grandeur del maiale in tutte le sue insaccature, la rassegna Il mito dell'America nella periferia emiliana con serate dedicate a Woody Guthrie, Bruce Springsteen e Bob Dylan.
Sono capitato nella serata di Bruce ed è stata una festa. Il teatro polifunzionale di XII Morelli è attiguo alla Chiesa Parrocchiale ma è gestito in modo pubblico come dire che Peppone e Don Camillo qui vivono ancora e allora sabato 14 aprile c'è un palco che ospita il rocker locale John Strada accompagnato dagli Wild Innocents e poi l'attrazione venuta fin qui dall'America, Greg Trooper. Ci sono più di duecento persone nel padiglione, tanti i locali presenti, di tutte le età e tanti quelli accorsi dalle provincie vicine, da Reggio, Modena, Bologna, qualcuno perfino da Roma, uno dalla Sardegna. L'atmosfera è da festa di paese, calda  e divertente ma appena si spengono le luci tutti rivolgono l'attenzione alle parole del presentatore che parla di sogni, ricordi e Springsteen e alle note dei musicisti che per due ore e mezzo scalderanno questa accogliente venue della Bassa. I tavoli sono pieni di gente e di gnocco fritto, la birra corre a fiumi, le ragazze e le donne sono belle e  cordiali, attente e partecipate anche loro, senza la spocchia della "figa" di città. L'ambiente è casereccio, ruspante, ma la cultura serpeggia tra bicchieri e affettati, in un tavolo si vendono libri su Kerouac, Monk, Dylan, Patti Smith, le persone parlano tra di loro, le loro vite, i film, i dischi, i concerti, gli amici presenti e andati. Bruce sarebbe contento di essere qui, celebrato tra gente semplice, affabile, nobile anche se uscita dalla campagna e dal duro lavoro, in un posto così informale e così italiano.  Apre John Strada, è l'eroe locale, il Bruce di questa landa d'Emilia, una terra che ha dato tanti Bruce e che ancora ne sforna perchè qui il rock n'roll come le moto, la nebbia, la velocità, la pasta tirata col mattarello e il maiale sono sacri. E allora via, John Strada coi suoi Wild Innocents infila una serie di rockacci scatenati che evocano nei suoni, nei refrain, negli assoli di chitarra il Boss ma anche tutta una stirpe blue-collar onesta, sudata, vera. John Strada canta bene in inglese, per vivere fa l'insegnante di lingue e ha vissuto negli Usa, esegue una tosta e riuscitissima versione di Growin' Up ma poi passa all'italiano con canzoni che si appiccicano al nostro immaginario, come in La notte che mi hai lasciato, Il Fuoco Dentro, Cavalli Selvaggi e La signora Rina, la vicina di casa che tutti abbiamo avuto almeno una volta nella vita e ci ha  rotto le palle per il volume del nostro stereo. John Strada  canta, salta, sguaina la Fender e concede un set al ragù gustoso e sincero, stradaiolo fino al midollo. Gli Wild Innocents pestano duro e poi declinano rootsy quando sono raggiunti sul palco dal fisarmonicista Banzi e insieme fanno sarabanda con l'hit locale, Tiramolla, una canzone che racconta la storia del paese XII Morelli, detto Tiramolla, tra dispute paesane e una chiesa da costruire. Esilarante.
Dopo Strada è la volta di Greg Trooper. (prosegui la lettura su Zambo's Place)

Mauro Zambellini 2012

(foto Marco Paltrinieri)

domenica 1 aprile 2012

Francesco Piu Ma-Moo Tones



Al terzo obiettivo Francesco Piu, giovane talento sardo al servizio del blues, centra il bersaglio, Ma-moo tones è il lavoro migliore della sua avventura musicale. Ci sono ottime canzoni nel suo disco, varie, scritte con la collaborazione di Daniele Tenca e rivolte ad un superamento dei luoghi comuni dei testi blues con qualche riferimento alla realtà sociale e al malcostume culturale che ci circonda, c'è una performance coi fiocchi sostenuta da una voce espressiva e multiforme, una padronanza dell'inglese credibile e ci sono chitarre che spaziano con brillantezza dalla lap steel al banjo, dalla chitarra resofonica alla acustica, dalla elettrica a cimeli d'epoca tipo una parlour guitar dell'inizio secolo (quello trascorso). Francesco Piu è una delle promesse del rinnovato panorama blues italiano e questo disco conferma la sua bravura, la sua versatilità, il suo spumeggiante entusiasmo che dal vivo, solo o in compagnia, è motivo di un approccio coinvolgente col pubblico. Nella sua performance c'è freschezza, fantasia, apertura mentale, modernità senza venire meno ai presupposti del blues, l'ortodossia è lontana, la standardizzazione una parola che qui centra come cavolo a merenda.
Ma-moo tones è disco acustico solo in parte perchè ci sono strumenti elettrici, le percussioni del bravo Pablo Leoni, l'eccellente armonica di Davide Speranza e una produzione oculata e maestra come quella di Eric Bibb. Il risultato è un blues acustico solo di nome perchè in realtà le undici tracce di Ma-moo tunes attraversano un mondo di blues contaminato dal reggae, dal soul, dal rock e da idee strumentali che allargano lo spettro espressivo delle dodici battute. L'iniziale The End of Your Spell il cui testo è sul potere deleterio della televisione è un rauco blues da trio elettrico con venature hendrixiane ed una armonica da J.Geils Band, la slide è acida e il ritmo martellante. Un apertura coi fiocchi per un disco che non cala mai di tensione, la seguente Over You gioca sulla risposta tra voce, chitarra resofonica e armonica mentre le percussioni creano un ritmo sincopato, Hooks In My Skin è parente del reggae, Pablo Leoni fa tutto in levare e Francesco Piu canta un blues aromatizzato Caraibi facendo la cosa più vicino a Eric Bibb del disco. Blind Track, altra composizione di Daniele Tenca è invece lenta e riflessiva mentre la scoppiettante Colors regala una voce colorata e persuasiva.
Bello il contrasto creato tra banjo ed il singhiozzante ritmo rock di Stand By Bottom, aria misteriosa ed echi Delta in Overdose of Sorrow dove compare Eric Bibb con la chitarra baritono e ancora Mississippi in Down On My Knees dove Piu apre la sua coscienza e chiede in ginocchio l'aiuto del Signore. E' il lato religioso del blues qui sviluppato attorno al lavoro della chitarra resofonica e al cantato "rapito" di Francesco. Più profana la versione di Trouble So Hard, un traditional riconsegnato in tutta la sua rauca e delirante asprezza. E' la prima delle tre cover del disco assieme alla rilettura di Soul of a Man di Blind Willie Johnson eseguita come fosse un chain gang blues e alla atmosferica interpretazione strumentale di Third Stone From The Sun di Jimi Hendrix dove Piu si sbizzarrisce con una chitarra dei primi del novecento.
Ma-moo tones (le maschere del carnevale sardo) è un disco brillante e Francesco Piu un bluesman da coltivare con cura. Buone nuove da Little Italy.

(Mauro Zambellini da Zambo's Place)

giovedì 22 marzo 2012

I Luf Cantano Guccini



C'è stato un tempo che è stato un tempo felice per la canzone italiana, anzi ne è stato di certo il tempo più bello. I giorni dei cantautori, che declinavano le ballate d'oltreoceano di Bob Dylan e Leonard Cohen con il nostro idioma latino, i primi anni settanta di Francesco De Gregori, Francesco Guccini, Lucio Dalla, Antonello Venditti, Angelo Branduardi, oltre ai più rockettari Edoardo Bennato, Eugenio Finardi e tutti gli altri (su su fino ai gruppi fusion e progressive). Noi che eravamo più scafati e ascoltavamo la musica "della California o delle porte del cosmo", di Canterbury, dei figli dei King Crimson o di Miles Davis, un po' li snobbavano quei dischi cantati in italiano, ma c'era tutta una generazione a riconoscersi in quelle pagine cantate e a partecipare attraverso quelle canzoni alla mitologia del rock. E siccome tutti abbiamo avuti una fidanzata o una compagna di scuola che possedevano i LP di Radici, Rimmel, Automobili, La Luna, Sotto Il Segno dei Pesci, quei dischi li conosciamo ugualmente a memoria. Francesco Guccini aveva una personalità magnetica: la voce e l'eskimo, gli stessi del boss del Liceo, quello che possedeva le verità e che non avresti mai avuto il coraggio di contraddire. La voce di Guccini non poteva fare a meno di incantare anche i più rockettari, come non emozionarsi alle sue canzoni e non commuoversi alle sue storie? I suoi testi lirici sono stati paragonati al Carducci, e sono molte le sue canzoni ad essere entrate nel mito popolare.
Può dunque non fare piacere che una manciata di esse venga recuperata dalla polvere dell'oblio e recuperata alla vita e all'ascolto, auspicabilmente non solo di cinquantenni nostalgici ma di generazioni che del Guccini non hanno mai neppure sentito parlare? Può non fare piacere che il mio spacciatore di dischi a cui chiedo di questi Luf, mi dica che il disco vende bene? E mi piacerebbe vendesse sopratutto a giovani orecchie che attraverso questo disco rivivano le stesse emozioni di altri vecchio giovani cuori anni prima di loro…
I Luf in spagnolo si tradurrebbe Los Lobos, vengono dal lago e pare abbiano già messo assieme un bel po' di dischi cantati da Dario Canossi, ex ragazzo dalla voce gucciniana che sulle sue canzoni ha imparato a suonare la chitarra, ad esibirsi e a scrivere canzoni di suo. La band attorno è di lupi del lago di Como, come Van De Sfross, e come lui fanno del cajun con fisarmonica, violino, fisarmonica, dobro, ukulele e chitarre acustiche. Questo singolare e fortunato omaggio al poeta di Pavana è, nelle parole di della band, un modo di "vestire quelle belle signore che sono le canzoni di Guccini con abiti nuovi fatti a mano, con fisarmonica violino e cornamuse…"
Undici canzoni evidentemente scelte fra le preferite del cantante Dario Canossi, o fra quelle che gli vengono meglio. Scelte più fra le "canzonevoli" che fra quelle epiche o malinconiche di Guccini; non a caso molti pezzi fanno parte del repertorio dei Nomadi. Non è facile cantare le canzoni che furono cantate da uno con la personalità straripante di Guccini, ed anche avere una "voce simile" a quella di Guccini è cosa diversa da avere "la voce" di Guccini; per questo gli episodi migliori mi paiono quelli più vestiti dalla personalità folk quasi world dei Lupi, per esempio Bologna che apre l'album (anche se per apprezzare un'ode al capoluogo dell'Emilia bisogna proprio esserci nati, perché non è San Francisco e neppure la swingin' London). Molto ben fatta anche Canzone per un Amica, che come tutti i nati nei fifties ben sanno è il commovente omaggio del vate ad una giovane amica rimasta uccisa in un incidente in automobile. Vedi Cara e L'Avvelenata suonano piene e convinte, mentre era veramente un azzardo riproporre un fotogramma di immobile malinconia come Incontro, che per quanto bella non rende la tristezza dell'originale.
Ma il senso del disco non dovrebbe essere paragonare le versioni dei Luf a quelle originali, ma invece riportare sulle tavole del palco piccoli grandi poesie che non meritano la polvere e l'oblio; ed il meglio sarebbe che le canzoni fossero ascoltare da orecchie nuove, con l'auspicio che riescano anche a conquistarle.

Per quanto riguarda me mi ha un po' colpito sentire oggi le parole scritte nel 1965: "questa mia generazione è preparata a un mondo nuovo e a una speranza appena nata, ad un futuro che ha già in mano". 


martedì 20 marzo 2012

Mandolin Brothers 30 Lives!




"Pensavo a una serie di sogni, dove volano il tempo e il ritmo e non c’è uscita in nessuna direzione, tranne quella che con gli occhi non si vede". (Bob Dylan)

E’ chiaro fin dalle prime note che i Mandolin’ Brothers si sono schierati sul palco pronti a tutto, ma vorrebbero essere altrove. Il trucco lo conoscono bene. Quando riecheggia Dark Was The Night Cold Was The Ground ormai soltanto Paolo Canevari e Jimmy Ragazzon e Peter Guralnick pensano a Blind Willie Johnson. Tutti gli altri, quelli che erano a Spaziomusica e quelli che la sentiranno qui, partiranno subito per Paris, Texas. I Mandolin’ Brothers, che sono on the road da trent’anni, sanno che è un biglietto di sola andata. Per cui potete prendere un Midnite Plane per andare a vedere lo skyline di Bombay, volare a Saigon, o a Paris, France sull’onda delle tastiere e della fisarmonica di Riccardo Maccabruni o infilarvi in una Copperhead Road (fatte attenzione ai crotali), ma prima di tutto dovete decidere, scegliere dove andare e da che parte stare, vi dovete muovere, You Gotta Move e qui i Mandolin’ Brothers fanno arrivare il blues, i Rolling Stones, Andy Warhol e mille altri di quei sogni che solo il rock’n’roll può regalare. Anche se non è che un concerto possa farvi dimenticare i guai di un mondo guasto, e ci vuole coraggio a cantare Almost Cut My Hair, che per inciso (anche grazie alle chitarre di Bruno De Faveri) suona ancora più ribelle oggi di allora, e Carton Box (con il basso di Joe Barreca che vi trascinerà nelle viscere della terra) perchè tutti i giornali e le televisioni hanno fatto vedere gli scatoloni dei manager in fuga dalla crisi e dai disastri che loro stessi hanno combinato, ma non spendono mai una parola per chi in quei cartoni ci passa una vita. Si capisce allora che David Crosby, Steve Earle o Ry Cooder non sono soltanto i cardini del concerto, ma tappe di un percorso, frammenti di un ritratto, spiriti affini, parti di un mondo che i Mandolin’ Brothers e tutti quanti a Spaziomusica e chiunque si nutre di rock’n’roll crea e ricrea ogni giorno e ogni notte, un identikit la cui forma diventa chiara solo dopo anni & anni & anni: sì, il tempo è dalla nostra parte perchè il tempo si ferma solo se non si fermano i sogni e qui dentro di sogni ce ne sono ancora, ma anche sui sogni i Mandolin’ Brothers non scherzano perchè uno può sognare di vincere la lotteria o di diventare presidente della repubblica (auguri), ma sognare di vivere dentro Waiting For Columbus è qualcosa di così raffinato e originale che non ci si accorge nemmeno che è un sogno perchè Dixie Chicken la stanno suonando sul serio dopo che la batteria di Daniele Negro ha cominciato Iko Iko come se Pavia, Londra, Los Angeles, New Orleans e Paris, Texas dove tutto è cominciato, fossero sullo stesso parallelo, una linea (rossa e bollente) che collega tutti i punti di una geografia che abbiamo in testa e ne fa un luogo dove si vive un pò meglio. Attenzione, però, con i Mandolin’ Brothers si viaggia, come direbbe Sam Shepard, "da un posto a un altro. Ma è nel mezzo che c’è l’azione". Ecco, qui dentro l’azione, dalla prima nota della slide all’ultima parola di Muddy Waters, non è tanto quella di una rock’n’roll band che suona (alla grande, peraltro), ma quella di una rock’n’roll band che continua a sognare. Non gli si può sfuggire. Still Got Dreams. I sogni invocano responsabilità. Alzate il volume. Chiudete gli occhi. Buon viaggio.

Marco Denti, Lodi, Settembre 2009

Marco Denti è stato il mio direttore su Feedback, la migliore rivista rock italiana di sempre e l'unica di cui nessuno ha memoria. Gli rubo le parole che ha usato per il grande disco live della The Band italiana in attesa di trovarne io di mie per raccontarvi dei grandi Mandolin' Brothers. (Blue Bottazzi).

domenica 18 marzo 2012

Veronica Sbergia & Max De Bernardi > Old Stories For Modern Times



C'è stato questo disco, Jazz di Ry Cooder (WB, 1978), che ho molto amato e che puntualmente ancora torna sul mio stereo: jazz delle origini e delicati gioielli acustici. Allo stesso modo sto amando il disco jazz di Veronica Sbergia & Max De Bernardi, entrambi Red Wine Serenaders, la band a D.O.C. di old time music. Jazz cantato (sia al maschile che al femminile) effervescente, divertente, entusiasmante, che evoca un mondo che non c'è più ma una umanità che c'è ancora. Quindici gioielli standard del jazz, del ragtime, del folk, già sentiti magari da Ella Fitzgerald o Cab Calloway o Louis Amstrong, che risalgono agli anni '20 come a quelli della grande depressione (che a giudicare da queste canzoni pare che la gente prendesse con più spirito della depressione in atto oggi).
Quindici pezzi suonati acustici da mandolini, ukulele, chitarre, mandolini, washboard a tenere il ritmo trascinante, kazoo, armonica (del grande Sugar Blue), chitarra resofonica (Bob Brozman), che suonano come un'intera orchestra nonostante il suono sia rigorosamente mono e registrato (benissimo) in analogico da microfoni panoramici.
Impossibile pensare ad una musica più divertente ed al tempo stesso più toccante, come quando Veronica canta "uno di questi giorni ti mancherò, dolcezza, uno di questi giorni ti sentirai così solo…" o "sono stanca delle luci della città, stanca dei lustrini e sogno di tornare a casa sul vecchio fiume, mi manca il Mississippi e mi manchi tu" e Max "giù a Memphis nel Tennessee vive una ragazza di nome Simmy, ha un negozio di carne all'angolo e non puoi resisterle perché ogni volta che passi alla sua porta lei grida beedle-um-um, vieni a trovarmi se non hai nessuno, lei fa parlare i muti, correre gli zoppi, ti manca qualcosa se non hai nessuno…" o "vi dico che sembro uno straccione ma sono uno a posto, sono un vagabondo ed un giocatore d'azzardo e sto fuori tutta la notte ma mangio bistecca tre volte al giorno, ho un ventilatore che mi fa fresco ed un bimbo che gioca ai miei piedi, mi sono sposato e mi sono sistemato, ho un piccolo nido d'amore proprio qui in città, ho una famiglia e ne vado fiero e sono felice perché li amo, gente, sembro uno straccione ma sono uno a posto…"

C'è qualche cosa in questa musica, c'è qualche cosa in queste canzoni, una poesia ed una semplicità che abbiamo perso ma che non è troppo tardi per recuperare, perché queste sono "vecchie storie per tempi moderni", dentro c'è l'umanità, ed è ancora questo quello che vogliamo, sentimenti, valori ed una danza vivace che ci porti via i blues dal cuore. E nessuno lo sa fare meglio di Veronica, Max e i loro amici.

"Lascerò la mia vecchia chitarra, vorrei potermela legare al fianco per portarla con me, sono arrivato così lontano che non c'è nessuno che piange per me"

"Dio, l'ultima parola gentile che ho sentito dire da mio padre: se muoio nella guerra di Germania voglio che tu spedisca il mio corpo a mia suocera, se mi uccidono per favore non seppellire il mio corpo, preferisco restare fuori e che mi mangino gli uccelli. Sono andato in stazione, ho letto i segnali, se non arriva un treno dovrò camminare un bel po'... Il Mississippi lo sai è profondo ed è largo, posso stare di qui a vedere il viso della mia bambina dall'altra parte… ti rivedrò dopo che avrò attraversato il profondo mare blu"

L'etichetta discografica si chiama "Totally Unnecessary Records", ma non riesco a pensare ad una musica più necessaria... Distribuzione Audioglobe. Sito web Redwineserenaders.


venerdì 9 marzo 2012

Mandolin' Brothers Moon Rd.



Rimane sempre una colonia l’Italia per quanto riguarda il rock n’ roll anche se è una di quelle colonie che godono di uno statuto speciale con tanto di parziale indipendenza e completa autonomia. Negli anni sono cresciute centinaia di band che pur riferendosi in maniera inequivocabile al rock americano, copiando stili, imitando atteggiamenti e usando la stessa lingua, hanno sviluppato una propria autonomia ricreando lo stesso feeling con un inconfondibile spirito italico mettendoci innocenza, vivacità ed entusiasmo. Doti che hanno in parte sopperito ad una tecnica non sempre eccelsa e ad una comprensibile mancanza di malizia nel plasmare una lingua non naturale per noi latini. Al di là delle difficoltà ne è nata una italian wave che si è fatta apprezzare anche all’estero, soprattutto nella “madre patria” America. Gli esempi non mancano e abbondano, basta leggersi i nomi che riempiono il tributo For You alle canzoni del Boss per avere un’idea del fenomeno, alcuni di questi nomi sono arrivati nei club e nelle radio americane e non è poco se si pensa che qui da noi le radio (al 99% una vera schifezza) non offrono un briciolo di promozione e i locali che fanno musica sono come il temolo.
E’ un piacere quindi trovare una band dell’Oltrepò Pavese, un tempo zona famosa solo per i vini con le bollicine e oggi teatro di una scena assolutamente frizzante nel campo del rock e del blues, invitata in quel tempio sacro del rock n’roll che è Memphis e ospite dell’International Blues Challenge. Significa che la passione, la dedizione, i sacrifici e la tenacia sono stati alfine premiati ed un sogno americano si è finalmente avverato.
Gli autori di questo miracolo si chiamano Mandolin’ Brothers anche se ad onor del vero di mandolino ce n’è uno solo (Marco Rovino) ed il sound è quello che vi aspettereste da un combo che naviga tra blues e country, con forti aperture verso il vecchio e classico rock n’ roll, quella cosa che tutti chiamano Americana ed una serie di nomi che sono una specie di passepartout per la terra promessa ovvero Dylan, i Little Feat, Steve Earle e Van Morrison.
È roots-rock di radici americane e non pavesi ma questo è il limite di appartenere ancora ad una colonia, sebbene a statuto speciale. Non sono di primo pelo i Mandolin’ Brothers perchè circolano da parecchio e hanno alle spalle una discreta discografia nella quale spiccano il maturo Still Got Dreams del 2008, disco che li ha catapultati all’onore delle cronache specializzate e il pimpante 30 Lives! con cui hanno festeggiato i 30 anni della loro militanza.

A Memphis hanno suonato al BB.King’s Blues Club di Beale Street e ad Austin hanno registrato questo nuovo mini CD intitolato Moon Road.
Sei brani registrati con la supervisione del produttore Merel Bregante e con la partecipazione di invitati quali il violinista Cody Brown, il bassista Lynn Daniel, il chitarrista Kenny Grimes, lo stesso Bregante e la brava Cindy Cashdollar, lap-steel guitar e dobro con Dylan, Dave Alvin e Ryan Adams.

Al CD hanno allegato un DVD che racconta il loro viaggio nel Mississippi , sulle highway 61 e 49, luoghi sacri della musica di cui loro sono figli. Il tutto viene raccolto in uno splendido digipack arricchito da un lavoro fotografico e grafico a dir poco superbo, testimonianza di un amore verso questo mondo di blues e rock n’roll vissuto fino nel più piccolo dei dettagli. Se la parte visuale è capace da sola di catapultarvi in quelle terre ed in quell’atmosfera, la musica non è da meno. Registrata in maniera tecnicamente ineccepibile con una resa sonora da prodotto altamente professionale, la musica di Moon Road è eloquente sintesi degli umori e delle passioni dei Mandolin’ Bros. Anche se rispetto ai lavori precedenti qui c’è una prevalenza di suoni acustici e country. Si passa dalla frizzante vivacità di Hold Me, pezzo che con il suo intreccio chitarristico (Paolo Canevari, Marco Rovino, Cindy Cashdollar) non sfigurerebbe nel repertorio dei Flying Burrito Brothers, alla più intimistica 49 Years dove il cantante Jimmy Ragazzon ed il violinista Cody Brown ricreano un pastorale paesaggio appalachiano; dalle suggestioni borderline di Moon Road impreziosita dalla fisarmonica di Riccardo Maccabruni all’arruffato Old Rock & Roll da juke joint, per poi concludere con gli intrecci mandolino/chitarra acustica e slide di Dr. Dreams, riuscito matrimonio tra folk e country-blues e con l’intenso e sincero antimilitarismo di Another Kind frutto della lucida scrittura di Jimmy Ragazzon, autore cresciuto a pane e Dylan.

Sei canzoni ed un DVD con il titolo di Moon Road, nuvole, strade, polvere ed un sacco di passione da parte di una delle formazioni più vispe della italian way to the american music.

Mauro Zambellini Gennaio 2011 (Zambo's Place)

domenica 4 marzo 2012

venerdì 2 marzo 2012

John Strada & The Wild Innocents Live In Rock'a



Un altro rocker dalla via Emilia, la stessa strada battuta dai Graziano Romani, Rigo Righetti, Ligabue, Miami & The Groovers, e volendo un po’ più giù fino ai Cheap Wine… Terra di polvere, afa, motori e tanta passione.
Nato, come racconta lui, all’incrocio fra le provincie di Bologna, Ferrara e Modena, John di strada ne ha fatta molta per arrivare fino al Greenwich Village e a Londra. Vent’anni di musica e concerti, Strada è un vero blue collar del rock & roll fulminato sulla via del Boss. Un John Grushecky della pianura del Po.
I fan raccontano che il meglio John Strada lo da negli show dal vivo, come quello testimoniato da questo doppio CD registrato la notte del 15 luglio 2011 alla Rocca di Cento in provincia di Ferrara con la sua band, un gruppo che porta il significativo nome di The Wild Innocents. E quando Springsteen mastichi questa band lo si capisce dalla qualità delle cover di Growin’ Up e soprattutto di Born To Run, che chiude lo show con grande energia nonostante manchi il sax.
Ma a parte le cover, John Strada non canta le sue canzoni in inglese ma in italiano, nella lingua del suo pubblico. Perché John sa bene di essere un loser: come racconta lui stesso, non diventerà mai famoso ma andrà comunque avanti a provare per tutta la vita nella sua missione, che è portare il rock & roll, paesino dopo paesino e provincia dopo provincia, suonando con la sua band meglio che si può. Con Fabio Monaco, "il bello, il principe delle quattro corde"; con Daniele Hammond De Rosa; con Alex Boom Boom Cuocci, il picchiatore di Pieve di Cento; con Francesco Fosco Foschieri il Buddah della Fender.
John Strada suona il rock & roll del Boss ma canta in italiano le parole che parla ogni giorno al bar. Parole che a volte possono apparire semplici, che a volte possono sembrare ingenue, ma sono le parole che parla il suo pubblico. La band, non lo si può negare, è strepitosa, in gran forma ed in gran spolvero, professionisti rodati dalla strada e dal palco, ma con una passionaccia che si sente ad ogni pezzo. I brani sono quelli che gli è riuscito di scrivere meglio in sei album e vent’anni di carriera. Raccontano di gioventù (Come una star), di amori che nascono (Eccomi qua), di amori che finiscono (La notte che mi hai lasciato). Di suicidio anche (Lettera dal Paradiso).

Sempre di più: “Questa è la canzone più triste che facciamo ogni notte, questa canzone parla dei rapporti che ci sono fra uomini e donne, perché tu credi di mettere dentro nella persona che ti piace quello che tu ti aspetti quello che lei sia, ma raramente questo capita… Il cuore fa molto male quindi ragazze andateci piano per favore”

15 Agosto, Marina di Ravenna (Barbara). È un titolo che ricorda qualche cosa?

Crevalcore 07.01.05 è un rock cupo “e va, e va, verso l’eternità, non ritornerà”, con un gran Hammond a dipingere lo sfondo, il mio brano preferito assieme a Cohiba, un rock caraibico cantato come un inno, “c’è un ipotesi migliore per cui battersi e morire e non credere a chi dice di no, c’è c’è Che, c’è un profumo inebriante che dall’Africa alle Ande ti racconta di tabacco e caffè, c’è una voce chiara ed argentina, che fa fuoco e medicina, come avesse amore e rabbia, c’è fra le nuvole di un sigaro la voce di uno zingaro che un giorno di gennaio gridò, c’è o almeno credo ci sia stato un fedelissimo soldato che per sempre quella voce cercò… Venceremos adelante o victoria muerte!” 

Ancora le canzoni cantano di energia (C’è un fuoco dentro di te); dell’invecchiare (Ci deve essere un errore, su un groove alla Cadillac Ranch: “non può essere vero quello che ho sognato, dove è andata la vita che ho vissuto, ci deve essere un errore, ho superato i quaranta…”; dell’infedeltà coniugale (Sabbie mobili); di amicizia e di divertimento assieme sul lungomare (La storia è fatta di notte).

Cavalli Selvaggi è la sua Born To Run, ed è proprio con questa accoppiata che si conclude il concerto per un pubblico plaudente e soddisfatto.

Anche se John Strada non diventerà mai famoso un po’ di successo se lo meriterebbe comunque. Diciamo almeno lo stesso successo che ha trovato un Ligabue, un rocker che allo stesso pubblico si rivolge. Se una casa discografica scommettesse su di lui, se ottenesse un po’ di spazio alla radio (ma non esistono più le radio libere), se una delle canzoni avesse un briciolo di fortuna, se il pubblico della musica leggera alzasse lo sguardo un poco più in alto, John Strada potrebbe avere un po’ del successo che gli spetterebbe di diritto. E se poi curasse i testi con un po’ più di malizia potrebbe mirare anche ad un pubblico più attento. Ma John Strada è un blue collar, un proletario del rock & roll, uno che parla come mangia, fa poca poesia e dice “due poppe così” nelle sue canzoni. In missione per il rock & roll dalle parti del bagno Sottomarino di Marina di Ravenna.

mercoledì 29 febbraio 2012

Miami & The Groovers Good Things



Questi ragazzi sono Local Heroes, eroi della east coast dove tocca la via Emilia, sulla spiaggia di Rimini. Sono gli eroi locali di club come il Rockisland in fondo al molo, ma non c’è posto dove non abbiano suonato, compreso quando hanno fatto da backin bands a Southside Johnny & The Asbury Jukes, un’altra shore band, anche se la spiaggia di questa da sull’Oceano Atlantico. Good Things è il terzo album della band di Lorenzo Semprini, ed è un enorme passo avanti rispetto ai precedenti. Se i Miami nascevano ispirati alla scena di Asbury Park ed in particolare ai dischi di Bruce Springsteen, con Good Things hanno realizzato definitivamente un proprio suono, personale, che non richiama più in nessun momento le canzoni del Boss. La musica di Good Things è gioiosa, trascinante, potente, orecchiabile anche. Un disco da infilare sullo stereo dell’auto e non togliere più, come un bel Tom Petty dei tempi di Damn The Torpedoes. Se proprio fossi obbligato a descriverlo a chi non li ha mai sentiti (e non ha voglia di cercarli su iTunes) farei il nome di un rocker newyorchese, Willie Nile.
Good Things la canzone apre l’album con un inno trascinante fatta apposta per il live show, dove la voce delicata di Lorenzo Semprini si arrampica sui cori. Ma già A Night Train, come pure Under Control e Burning Ground raccontano di un rock sporco di matrice più british, fra i riff beat rabbiosi di Kinks e Who e le Garage Band americane. Audrey Hepburn’s Smile è una ballata divertente e solare come lo è tutto il disco, qualche cosa di piacevole da ascoltare come lo era il rock degli anni ottanta di John Cougar, Beat Farmers, Del Fuegos.
La perfezione però la band la raggiunge nel cuore del disco, con quelle ballate che sembrano sgorgare naturali e senza fatica dal cuore del cantante, come la malinconica Walkin’ All Alone pennellata dal violino di Heather Horton (la moglie di Michael McDermott) e dal duetto vocale con Riccardo Maffoni.
Come la bellissima Before Your Eyes, aperta dal gioco fra l’organo ed il piano di Alessio Raffaelli, che è impossibile non cantare a squarciagola nel coro.
Come la strepitosa Always The Same introdotta da un bel giro di piano.
Postcards è una ballata dolce: “sto scrivendo una cartolina per quella che amo, sto scrivendo una cartolina dal confine del mondo, perché ho corso per chilometri e chilometri e tu sei così lontana da me”.
Il gran finale è addirittura il brano più bello, We're Still Alive, una irresistibile giga irlandese dall’energia punk Pogues, per salutare il pubblico e lasciarlo nell’estasi: “piangerai quando diremo addio alla gente che è venuta questa sera? corriamo ancora sulla stessa strada, è un altro giorno per me e per te, augurami buona fortuna, siamo ancora vivi!"

Un disco bellissimo, canzoni bellissime. È ora di rendersi conto che la scena italiana è la più brillante del panorama rock & roll internazionale di oggi. Non perdetevela.

Bravi tutti, Lorenzo, Claudio Giani al sax, Alessio Raffaelli alle tastiere, Beppe Ardito alle chitarre, Luca Angelici al basso e Marco Ferri alla batteria. Antonio Gramentieri, Alez Valle, Heather Horton, Israel Nash Gripka e Riccardo Maffoni ospiti.


Little Italy


Questi che viviamo non sono i Glory Days della musica Rock. Gli americani si ripetono, gli inglesi pare addirittura si siano proprio arresi, in giro non si sente che musica commerciale e poca anche di quella, Ma a drizzare le orecchie c'è una scena musicale più vicina a noi che è invece viva e vegeta. È la scena del rock italiano, che anche se manca del tutto di canali di comunicazione, radio libere e club per i concerti, è mossa da un inestinguibile entusiasmo, gioia di vivere e di suonare e da tanto talento.
È la scena di tante rock & roll band che dalla west coast del Tirreno alla east coast dell'Adriatico passando magari per la via Emilia, sono giorno dopo giorno on the road, suonando belle canzoni che vale la pena di ascoltare. Musicisti "foolish and hungry"ricchi di talento, che cantano il rock spesso nella lingua originale e incidono dischi che non troverete nei superstore ma che sono vere e proprie gemme come altrove non stampano più. È di loro che racconteremo su queste pagine. Stay tuned.

giovedì 19 gennaio 2012

Cesare Carugi Here's To The Road



La scena della musica americana suonata dai musicisti italiani si rivela ogni giorno di più una delle vivaci realtà di questi altrimenti intorpiditi anni. Non sono pochi dalle nostre parti i ragazzi che si sentono stretti nella landa dei "navigatori santi e poeti" e sono invece nati per correre sulla Highway 51: Frankie Lucarelli, Lawrence Bertocchini, Daniele Tenca, Miami & The Groovers, Cheap Wine… Sergio Marazzi, Tony Zirilli sono rocker di peso qualsiasi sia la loro spiaggia. Cesare Carugi arriva oggi con il disco d'esordio, ma con un talento di songwriter, una voce solida e un gusto rock che lasciano il segno. Non ho esagerato promuovendo Here's To The Road come il migliore italiano (in studio) dell'anno: il disco è una di quelle opere prime che si impongono. Mi viene da pensare (senza cercare paragoni di merito) a Dire Straits o Del Fuegos. Un disco che appare già maturo e perfettamente realizzato, pur lasciando spazio ad una crescita che il talento di Cesare lascia ben sperare. Il suono ha l'elegante fattura, la bella calligrafia ma anche la bucolica poesia  di un James McMurtry (Too Long In The Wasteland), o di un Michael McDermott, ma non gli è estranea la britannica americanità di un Kevin McDermott (ma che Cesare sia un McCarugi?) o di un Lloyd Cole. Basso, batteria, chitarre soprattutto acustiche, violino a ricamare, una voce robusta e del bei cori. La musica ideale per un road trip.
Il disco si apre con il brano più orecchiabile e radiofonico, che però è anche il meno originale, Too Late To Leave Montgomery, con coretti da west coast, la slide guitar e l'armonica.
È London Rain a dare la misura del talento (ok: talento è la parola chiave della recensione) compositivo di Cesare. Aperta sulle note di Simple Twist Of Fate è una ballata intensa, dolce e ricca assieme, su un ricordo lontano proprio alla Blood On The Tracks.
Blue Dress è una ballatona elettrica malinconica che sa di luna piena e di loup garou su una ragazza assassinata a New York.
Goodbye Graceland (una canzone dedicata ad una star del rockabilly amica del presidente Nixon) scopre le carte di un Carugi che si ispira a Dylan e Prine, ma le cui canzoni scorrono invece dalle parti di duri in giacca di pelle alla Mike Ness, alla Peter Wolf, alla Del Fuegos, alla Tonio K, alla Mitch Ryder. Insomma, la creme del rock delle chitarre. Goodbye Graceland è a tutti gli effetti un gran pezzo Clash London Calling al 100% e reclama che si alzi al mix la ritmica.
Caroline è una bella ballata elettrica su una sfortunata Carolina che cammina sulle orme di una Carolyn (Steve Wynn) o una Mary Jane (Tom Petty). Con un violino alla Desire.
Dakota Lights è un pezzo molto dolce per piano e voce, che sottolinea se ce ne fosse bisogno la personalità della robusta voce di Cesare; una canzone che godrei come una Living Doll (John Eddie) se non cantasse dell'assassino di John Lennon.
There Ain't Nothing Wrong With Going Nowhere ("non c'è nulla di male ad andare da nessuna parte") è il mio pezzo preferito, che spesso si intrufola nei miei pensieri e suona non autorizzato nella mia testa; una ballate morbida ma robusta che racconta come la cultura musicale di Carugi non sia infarcita solo di west coast ma anche di malinconiche nebbie inglesi dell'età di Lloyd Cole & The Commotions e Prefab Sprout. Non credo sia per caso che nella canzone si citino rattlesnakes
L'altro highlight del disco, secondo il gusto di questo recensore, è la bellissima Every Rain Comes To Wash It All Clean, un oscuro e notturno rockabilly che meriterebbe una cover di sua maestà Sir Tom Waits, e che reclama un trattamento cattivo a base di chitarre distorte, megafoni, cori e lamenti cacofonici.
Cumberland è una ballata acustica scritta apposta per chiudere un disco di fine cesello come questo, in duetto con il citato Michael McDermott come ospite (o no?).

Cesare Carugi, Here's To The Road, irrinunciabile per tutti coloro che amano le belle canzoni.

(letto su BEAT)