giovedì 17 dicembre 2015

Cheap Wine > Mary and the Fairy


Questi ragazzi, i Cheap Wine, sono ormai i Rolling Stones di casa nostra. Sui palchi da vent'anni, sono arrivati al traguardo dei dieci dischi con la bandiera del rock ancora saldamente issata sulle palizzate di Fort Apache.
Esorditi nel 1997 con Pictures, costituivano il contraltare da questo lato dell'Oceano (e del Mediterraneo) del Paisley Underground los angelino di Dream Syndicate e Green On Red. Punk, new wave, rock delle chitarre, ballate elettriche, sapori di periferie urbane che confinano con il deserto.
Da questo punto di vista il suo apice la band lo ha raggiunto con Spirits, l'album del 2009, e sigillato con il doppio album in concerto Stay Alive!
Invece di appiattirsi sulla formula, i fratelli Diamantini hanno da allora virato verso una forma ballata più intima,  rinunciando alle chitarre distorte per inseguire un songwriting che, pur nel trade mark del suono originale 100% della band, può portare alla mente, per esempio, Nick Cave e i suoi Bad Seeds, dalle parti di The Boatman's Call.
Il frutto di questa ricerca, seminato in Based On Lies e Beggar Town, i Cheap Wine lo raccolgono finalmente qui, su Mary and the Fairy, Maria e la Fata, uno dei dischi più riusciti ed eleganti della loro storia.
Otto canzoni, lunghe e sognanti, canzoni che non hanno alcuna fretta di terminare, suonate dal vivo in un'ambiente intimo e con un suono presente e squillante (un po' alla Joe Jackson di Body and Soul, un disco che pure era stato registrato dal vivo, o meglio in diretta) che più efficacemente dello studio aiuta a liberare la magia unplugged. Che poggia in gran parte sul pianoforte di Alessio Raffaelli, il Roy Bittan nazionale. Si potrebbe dire che Mary and the Fairy inizia dove finiva il precedente Beggar Town, cioè la canzone The Fairy Has Your Wings (for Valeria), che ne rappresentava in momento migliore (e che in effetti chiude anche questo nuovo disco). Nessuna delle canzoni è un filler, ognuna ha un suo fascino ed una sua personalità; ciascuna è la mia preferita mentre sta suonando, come I Like Your Smell introdotta dalla fisarmonica, come La Buveuse, jazzata e notturna, come Dried Leaves, springsteeniana d.o.c..
Peccato la copertina non includa i testi.

Un disco come Mary and the Fair non ha nessun complesso di inferiorità verso il rock di oltremanica e di oltreoceano; anzi, stento a citare qualche disco internazionale di quest'anno che possa vantare l'identica forza e poesia. A sottolineare come l'underground italiano, del tutto ignorato dai media, avrebbe in sé la forza di costituire una scena di successo. Sapete cosa mi piacerebbe fare, se non dovessi lavorare per far quadrare i conti? Acquistare un vecchio furgone Volkswagen e girare il Paese per distribuire dischi come questo, assieme a libri come quelli di cui racconto in Assegni a vuoto. Perché sono sicuro che, se solo il pubblico avesse occasione di ascoltarlo, non perderebbe l'occasione di comprare un disco come Maria e la Fata. 

Da ascoltare. Da conoscere.


mercoledì 28 ottobre 2015

Graziano Romani > Vivo / Live


Due leggende in una, sin dalla copertina, bellissima. Graziano Romani, il papà del rock di Little Italy con i Rocking Chairs, e l'etichetta Route 61, la Asylum italiana. Che in Vivo / Live ci sia tanto amore e tanta passione si capisce così fin da prima di infilare i due dischi, quando si prende in mano la copertina: 27 canzoni registrate dal vivo nel 2013 al Festival Parco Secchia, sulla via Emilia, con una big band di sette elementi, fra cui il sax di Max Grizzly Marmiroli, uno dei Chairs.
I Rocking Chairs, sono in tanti a ricordarlo, furono negli anni a cavallo del '90, la prima grande band nazionale di rock anglofono, ispirato alla leggenda della E Street Band, quando i magnifici sette di Springsteen erano diventati solo un ricordo. Che lenivamo ascoltando i dischi di John Cougar Mellencamp, Tom Petty, John Eddie, Joe Grushecky, John Cafferty ed, appunto, i Rocking Chairs, autori di quattro bellissimi dischi, di cui uno registrato a NYC con Elliott Murphy.
Dopo la fine della band Graziano ha continuato, registrando un disco di cover (fra le quali You Can't Always Get What You Want degli Stones) con i Megajam 5, per poi inaugurare una carriera solista, fatta di dischi rock cantati in inglese, altri in italiano ed uno tutto di canzoni, per l'appunto, di Springsteen.
Questi ultimi anni sono stati di soddisfazione per Graziano: la reunion della vecchia band, con il Rigo Righetti, Robby Pellati, Mel Previte, Franco Borghi e Marmiroli, che ha portato ad un tour per l'Italia, e si spera in un disco prossimo venturo, magari proprio in concerto. E questo doppio live, che è l'antologia di una vita folgorata dal rock, quella notte del '81 che tornava, forse in pullman, dal concerto a Zurigo, all'Hallenstadion, di Bruce Springsteen & The E Street Band, un momento epocale per molti di noi.
Il disco / concerto gira che è una meraviglia, gira con un rodatissimo ritmo diesel, ed ogni suo elemento si incastra perfettamente nell'altro, che siano i pezzi dei Chairs (Cast The Stone, No Sad Goodbyes, Freedom Rain), pezzi più recenti (Up In Dreamland), brani in italiano (via Emilia, Augusto cantaci di noi), i pezzi "dei fumetti" (My Name Is Tex, Darkwood) e cover, del Boss (The Price You Pay), Chuck Berry (Johnny B. Goode), fino a Woody Guthrie (una sua versione di Goodnight Irene) e persino Who (Won't Get Fooled Again).

Un disco che al tempo stesso ha il pulsare energico del rock'n'roll e il calore della riunione fra amici con le chitarre acustiche. Un disco che si impone fra i live più belli registrati da un rocker italiano.
Un must per ogni rocker che viaggiando per la via Emilia fra la costa ligure e quella romagnola non può fare a meno di immaginarsi in una coast to coast sulla route 66. Anzi, 61.

martedì 27 ottobre 2015

Ruben > La vita alle spalle


Uno dei momenti migliori della musica italiana sono stati gli anni settanta dei cantautori: De André, Guccini, De Gregori, Bennato, Finardi, Dalla, Lolli, Venditti...
È a quel periodo che si ispira Ruben, cantautore degli anni duemila, già autore di Il rogo della vespa, Il lavoro più duro, Live alla fontana ed uno Spezzacuori, omaggio alle canzoni di Massimo Bubola.
Un mestiere ingrato, il cantautore negli anni duemila, che non ripaga neanche di una frazione del proprio talento. Al disinteresse musicale dei nostri giorni, Ruben reagisce con un gesto di orgoglio: se il mondo non valorizza il lavoro dell'artista, sarà l'artista a valutarlo da sé, a partire dalla vendita. Il suo nuovo album non è distribuito, è in vendita solo privatamente, ed al prezzo di 45 € ad ogni copia (autografata). Se vuoi un piccolo tesoro, lo devi pagare.

La vita alle spalle è curatissimo. Molto ben registrato, ben arrangiato, ben suonato, ben cantato, ha la durata di un long playing. È un disco che sa un po' di testamento: non a caso il tema è la morte. Ispirato dalle suggestioni di Death Of A Ladies' Man, il capolavoro di Leonard Cohen (registrato, vedi caso, nel 1977), Ruben immagina le parole finali di un cantautore, di un puttaniere, di un giocatore, di un pigmalione, di una ragazza qualunque, e persino di un attore porno e dell'Imperatore Nerone, fra arrangiamenti indovinati e sofisticati, viole, violini, tromba e strumenti a corda dalle chitarre ai mandolini. Un intermezzo strumentale si sviluppa in tre episodi, dal preludio al finale, con il titolo di Ogni ora ferisce, l'ultima uccide (dal titolo di un film francese degli anni sessanta). In un brano elettrico sembra persino di ascoltare i Pink Floyd.

Davvero un bel disco. Tanto da far rimpiangere la scelta di nasconderlo in un giardino segreto. Finite le copie fisiche, varrebbe la pena di lasciarlo ascoltare, magari pubblicandolo su siti come Spotify. Non ci si aspetta di guadagnare nulla, ma alla fine si crea per essere trovati, no?

mercoledì 22 aprile 2015

Francesco D’Acri > Over The Covers


Sono stato, in un certo senso, testimone della nascita di questo disco, o almeno di una delle occasioni che hanno condotto Francesco D'Acri a registrarlo. Ero a Pisa ed ho avuto il privilegio di essere accompagnato da Francesco, Luca Rovini e Andrea Giannoni (ognuno dei quali, fra parentesi, ha da allora registrato un nuovo disco) nella presentazione di un mio libro, Long Playing, quello che racconta la storia del Rock. In quella occasione Francesco mi colpì con una cover pressoché perfetta di Ring Of Fire di Johnny Cash. Quello che mi impressionò sopra ogni altra cosa fu la sua voce, solida, potente, profonda, calda, rock. Gli dissi che avrebbe dovuto registrare un disco di cover, e poco tempo dopo Francesco mi scrisse che lo stava facendo. Ed infine eccolo qui: Over The Covers, 16 classici della nostra musica, filtrati dalla sua sensibilità.
Avessi avuto l'opportunità di produrre il disco (ma abito lontano dalla Toscana e non sono un produttore), avrei suggerito a Francesco un lavoro essenziale e minimale, ispirato al lavoro fatto da Rick Rubin per gli ultimi dischi di Cash, quelli della serie Americana. O magari, più home made, un disco come quelli del Billy Bragg d'annata, per sola voce e chitarra elettrica o quasi. Insomma, una produzione che sottolineasse la voce, privilengiandola e rendendola protagonista.
La scelta di Francesco è invece eclettica: sedici canzoni molto differenti l'una dall'altra (si va addirittura da Jerry Lee Lewis ai Joy Division), a rappresentare probabilmente le sue cose favorite, o almeno quelle che trova più adatte al timbro forte e profondo della sua voce, registrate con chitarra, violino, armonica, pianoforte, batteria, Hammond e tutto quanto. Proprio per questo il disco è molto vario, sempre molto divertente, ricco di energia e di passione, ma con picchi e valli.
La cover di Ring Of Fire, la canzone con cui il disco a mio parere si sarebbe dovuto aprire, è semplicemente memorabile, con l'armonica di Giannone che rimpiazza assai in meglio le trombette messicane della versione originale, con una chitarra dal ritmo molto groove e soprattutto la voce di D'Acri, senza rivali nel panorama nostrano. Altrettanto stupefacente è la cover di Shelter From The Storm dal Blood Of The Tracks di Dylan, in un riuscito arrangiamento a due voci alla Everly Brothers. O meglio, sarebbe, se non fosse per la scelta di introdurre una voce narrante che recita i testi in italiano. Probabilmente un buon escamotage per rivolgersi a un pubblico più vasto (e magari anche più giovane), anche se io avrei preferito di gran lunga il solo cantato inglese. Ma può essere una questione di gusti, o di scelte. Against The Wind di Bob Seger è splendida, anche perché si discosta decisamente dall'originale, che viene riscritta con un arrangiamento lento per solo piano che la rende una ballata da pelle d'oca.
Un altro highlight è Sea Of Heartbreak, e sono pronto a saltare con i miei stivaletti da motociclista sul tavolo di Bruce Springsteen per dichiarare che la versione di D’Acri è decisamente più viva di quella di Bruce con Rosanne Cash.
Questi i miei brani preferiti.
Sempre a proposito di Springsteen, trovo solo coraggioso il tentativo di rifare Glory Days e Thunder Road, la seconda addirittura nello stesso arrangiamento acustico del Boss. Avessi dato un consiglio, avrei proposto a Francesco di fare con la sua voce un brano rockabilly come Johnny Bye Bye o magari Johnny 99. Comunque trovo che ci sia un po' di Suicide nell'organo di Glory Days.
Le versioni leggere di Blue Suede Shoes e Great Balls Of Fire non mi convincono, mentre la bella Forever Young (l'altra cover di Dylan) è addolcita dal violino (di Chiara Giacobbe). Love Will Tear Us Apart spariglia le carte con un brano pop dei Joy Division, mentre Story Of My Life dei Social Distortion è una bella sorpresa, e se non regge il confronto con il groove indiavolato dell'originale, è pur sempre una bellissima e misconosciuta canzone.
Con un incedere irresistibile, Passing Through con un doppio salto mortale riporta l'ascoltatore sul country rock a la Elvis. Don't Let Us Sick è un omaggio al grande Warren Zevon, e fa piacere.
Un gran bel disco, Over The Cover. Da ascoltare, da avere, da tenere in auto e far suonare a tutto volume on the road. Un disco che trasmette passione e piacere. Un disco senza complessi d'inferiorità, che fa onore al rock anglofono italiano. Io lo consiglio.

Spotify

domenica 11 gennaio 2015

il meglio del rock italiano di Little Italy nel 2014


Per forza di cose la scena musicale rock italiana vive più di una eccitante scena di live show ed interminabili “endless tour” che di dischi, perché di dischi se ne vendono sempre meno di gruppi americani ed inglesi, figuriamoci di eroi locali. Ma a dispetto dei volumi di vendite, è sorprendente la qualità di questi dischi, che spesso oltrepassa quella dei modelli di oltreoceano.
Le uscite sono tante, underground, e non è certo che io le abbia ascoltate tutte. Fra i dischi che conosco ho voluto estrarne solo tre, per un podio ideale di Little Italy. Eccoli:

(1) Chris Cacavas & Edward Abbiati > Me and the Devil

« Frutto della collaborazione democratica fra il mitico Chris Cacavas dei mai abbastanza rimpianti Green On Red ed Edward Abbiati dei nazionali Lowlands, è un disco che non ti aspetti, che ti colpisce, ti sconvolge, ti arruffa, un disco che evoca nostalgie di un passato romantico fatto di dischi degli anni ottanta come Gravity Talks, The Lost Weekend, True Believers, Beat Farmers, (Fleshtones), (Del Fuegos), come pure il convitato di pietra, i Crazy Horse di Neil Young » (leggi la recensione)

(2) Mandolin Brothers > Far Out

« Far Out, nella livrea verde che non può non ricordarci i pomodorini acerbi dei Little Feat, è bellissimo. Forse il vertice creativo della band ed uno dei migliori dischi anglofoni uscito nel nostro paese. Prodotto da Jono Manson, e con collaboratori come John Popper all'armonica ed all'apporto di una horn section, Far Out si eleva sui suoi modelli per creare un solido ed evocativo rock a marchio registrato delle chitarre, dei cori, delle armoniche, dei fiati, uno rock impressionista che dipinge bajou, delta, salici piangenti e i vasti spazi aperti dell’ovest » (leggi la recensione)

(3) Lowlands > Love, etc...

« Un disco spigliato, spensierato, di piccola sottile poesia e tanta allegria. Edward che canta e suona la chitarra acustica sopra un evocativo accompagnamento di una sezione di fiati e persino di archi, che non può non evocare lo shuffle della E Street Band di Greetings e di The Wild & The Innocent, con la bella ritmica diretta dal Rigo Righetti, la fisarmonica, la chitarra elettrica e tutto il resto. E, lasciatemelo dire, anche il Van Morrison di Moondance. È poco? » (leggi la recensione)

Questo non toglie che di dischi e di canzoni buone ne siano uscite molte altre nel 2014. Un paio di esempi: Mexican Dress dei Red Wine Serenaders di Veronica Sbergia e Max De Bernardi, e The Fairy Has Your Wings (For Valeria) dei Cheap Wine.