mercoledì 14 giugno 2017
Graziano Romani Soul Crusader Again - the songs of Bruce Springsteen
Iniziavano gli anni novanta e sullo stereo della mia auto a diesel girava a ripetizione la cassetta color beige di un disco in inglese, No Sad Goodbyes, opera di una band italiana, i Rocking Chairs. Erano gli anni di Bruce Springsteen, e con quelle canzoni la via Emilia diventava la Route 66, la Val Trebbia si trasformava nel Laurel Canyon e la mia città stava nel New Jersey. Erano canzoni che evocavano tutto quello che è stato il nostro mondo.
Romani ho continuato a seguirlo in quel bel disco di cover con il supergruppo dei Megajam 5, e poi nella sua carriera solista, da Storie della Via Emilia a Between Trains e Soul Crusader, dischi di cover varie e di cover del Boss.
Soul Crusader Again mi riporta a quei giorni e a quelle emozioni. Lo Springsteen guru che seguivamo con passione ed ingenuità. Le cover sono belle, intense, vissute e gli arrangiamenti sono essenziali, nudi ed energici, in stile Darkness On The Edge Of Town, per capirci, con gli assolo di armonica. L’esecuzione di Graziano ricca di cuore e di anima, come sempre.
I miei pezzi preferiti sono quelle più oscuri, meno popolari, come The Long Goodbye (il mio preferito), Protection (che il Boss cantò in duetto con Donna Summer), e quelle tratte dai dischi di Gary US Bonds: Hold On, Club Soul City, Love’s On The Line. Ancora, la bella oscura Man At The Top, e la reinventata Lift Me Up, liberata del falsetto dell'originale. Ed è un bel viaggiare a ritroso, nella nostalgia dei nostri giorni verdi, quando eravamo giovani e forti e ingenui e ottimisti e correvamo against the wind…
Mi ci sono fatto di nuovo una cassetta (ok, l'ho messo sull'iPod) per l'auto, per guidare verso l'orizzonte in questa estate afosa. Ed è una bella coincidenza che sia uscito assieme al ritorno di Little Steven. Due fratelli di sangue.
martedì 25 aprile 2017
Luca Rovini e Francesco D'Acri
Gli anni settanta sono stati gli anni d’oro della musica italiana. Avevamo Banco e PFM, Finardi e Bennato, Guccini e De Gregori, Perigeo e Napoli Centrale e ancora tanti altri.
Di cantautori oggi c’è più che penuria, le canzoni sono ormai tutta fuffa leggera per un pubblico ignorante. Specie protetta, mi viene da citare solo Massimo Bubola, fra i nomi noti, e Ruben, fra i carbonari.
Luca Rovini e Francesco D’Acri sono per l’appunto due cantautori italiani, toscano di Pisa il primo, milanese il secondo, veterani della scena musicale dei nostri giorni. Musicisti militanti che giorno dopo giorno, notte dopo notte, battono locali, si conquistano il pubblico, traducono in canzoni quello che vedono e quello che vivono.
Luca Rovini (Figure senza età) è un figlio di De Gregori, quello più americano, dylaniano, quello ispirato agli hobo. Arrivato al quarto disco, Figure senza età, ha trovato l’equilibrio del proprio stile. È più profondo e intimo, la voce morbida e armoniosa, i brani sono ballate lente e delicate, i testi sfumati ed evocativi. Fra le righe Rovini canta con il cuore della strada che ha percorso, gli incidenti che gli hanno teso agguati lungo la via, le esperienze che lo hanno atterrato e quelle che l’hanno aiutato a sollevarsi, e nelle parole delle sue canzoni l’ascoltatore può specchiarsi e riconoscersi.
«E pensare che cadevo e di certo non credevo ma è sicuro che cantavo». Alla fine della sua strada ci sono sempre l’amore, la speranza, la voglia di vivere.
«Me lo disse un mendicante, tutto è solo di passaggio, e io scelgo i miei compagni e le strade del mio viaggio».
Francesco D’Acri (Il principio di Archimede) ha una gran voce. L’ha messo in chiaro nel suo recente Over The Covers, dove si confrontava con le canzoni dei suoi eroi, da Johnny Cash a Bob Seger e Bruce Springsteen, uscendone a testa alta. Tutto diverso Il principio di Archimede, un album di canzoni italiane dalle parti di Guccini (ma anche di Bubola, De André e De Gregori). Non c’è America questa volta; gli arrangiamenti, asciutti e sofisticati, girano attorno alla chitarra acustica o al pianoforte ed a una sezione d’archi, violino, viola e violoncello, che conferiscono al lavoro un’atmosfera da musica da camera - che più che l’America può portare alla mente certi Beatles. I suoi testi sono più nascosti, si coglie la gioia di giocare con le parole, ma alla fine è sempre l’anima ferita ad affiorare: «Questa brezza di mare non sa niente di me».
Nessuno dei due dischi ha troppo potenziale commerciale, non ci sono singoli radiofonici. O quasi: Il Principio di Archimede gira nelle orecchie ed ha una confezione sontuosa, Corri uomo corri scorre leggero come un’auto lungo la strada.
Ma sono belli. Se l’ascoltatore, invece che di consumare canzoni orecchiabili, ha voglia di un album da leggere, da scavare, penetrare e da lasciar suonare, questi sono due dischi di canzoni a cui prestare ascolto.
Gang Calibro 77
I Gang (dei fratelli Severini) sono i Clash italiani, ma a differenza dei Clash sono ancora on the road. Calibro 77 è probabilmente il miglior disco rock in lingua italiana dell'anno. È un disco di nostalgia (le cover di canzoni nazionali sono tutte pescate tutte negli anni '70, il decennio d'oro della nostra musica) che guarda però avanti (gli spumeggianti arrangiamenti sono folk elettrici rinforzati dai fiati).
Eugenio Finardi (Sulla Strada), Lolli, De Gregori, Guccini, Bennato (Venderò), Pietrangeli, Manfredi, persino Giorgio Gaber. Bel disco, anche se poi non ce la faccio ad ascoltarlo, troppo doloroso da tanto le cose sono peggiorate per la gente in questo Paese.
lunedì 30 gennaio 2017
martedì 15 novembre 2016
John Strada > Mongrel
Se in posti come Nashville è da un secolo che suonano musica country, nessuno potrà aver da ridire se sulla SS9, la via Emilia, sono decadi che si suona il rock romantico di stampo springsteeniano. John Strada (alias Gianni Govoni) sulla via Emilia è una leggenda da molti anni e parecchi dischi. Nato al crocicchio fra le province di Bologna, Ferrara e Modena, recita la sua biografia.
Ma nulla di quello che avevamo ascoltato finora ci poteva preparare a Mongrel, il disco in inglese di John Strada & the Wild Innocents. Non c'è solo passione, nelle quindici tracce del CD. Ci sono belle canzoni, c'è ritmo, c'è entusiasmo, c'è danza, c'è groove. Ci sono brani sofisticati, grandi arrangiamenti, archi, l'organo ed il piano di Daniele De Rosa, la chitarra solista di Dave Pola, ci sono ballate, canzoni di Natale, danze folk, gioia di vivere.
Mongrel è uno dei più bei dischi di rock italiano anglofono (di Little Italy) che mi sia mai capitato di ascoltare. Realizzato in modo perfetto, senza nessun provincialismo e nessun complesso di inferiorità nei confronti degli originali. Mongrel è il Van Morrison della via Emilia, è lo E Street Shuffle della Pianura Padana. L'entusiasmo che mi trasmette ascoltarlo mi riporta ai tempi in cui tenevo la cassetta dei Rockin' Chairs sullo stereo dell'auto.
Ascoltate il ritmo di Who's Gonna Drive e He Was Magical, la dolcezza a la Pogues di Christmas In Magreb, l'atmosfera di Walking On Quicksand... la springsteeniana You've Killed My Heroes (ne facesse ancora il Boss canzoni così), la gioiosa danza di In The Fog. Non c'è un riempitivo.
Probabilmente il miglior disco italiano di quest'anno (e del New Jersey del decennio).
sabato 19 marzo 2016
Hernandez & Sampedro > Dichotomy
Lo scrivevo il 13 febbraio 2013 (già tre anni sono passati): neanche i miei sogni più selvaggi potevano prepararmi al suono che esce dal CD Happy Island (Isola Felice) del duo Hernandez & Sampedro. Avete presente Decemberists, R.E.M., Counting Crows? Potreste raccontarmi che è il loro disco che sto ascoltando, ed anche in questo caso si tratterebbe di uno dei loro più soprendenti lavori: una fusione di cristalline chitarre acustiche ed elettriche, evocativi cori ricchi di energia, intense melodie dipinte dei colori del cielo infuocato del tramonto...
Se c'è un capolavoro della scena del rock italiani anglofono, la scena di Little Italy, quello era Happy Island. Come affrontare l'ascolto del suo seguito? Con aspettative, con timore, con speranza. Tutte svanite come neve al solo quando alla fine ho sfilato il CD dalla bella copertina (nella tradizione di Route 61 - una attenzione grafica analoga la aveva la Cramps Records...) per infilarlo nel lettore dello stereo. Hernandez & Sampedro sono una realtà, ed il nuovo disco è bello come il precedente.
No: è più bello.
Non era facile restare fedeli ad uno stile perfettamente centrato e crescere al tempo stesso, per non ripetersi. Il duo ha deciso di risolvere la cosa in modo salomonico: dividendo il nuovo album in due facciate precise, la dicotomia del titolo; elettroacustica la prima, dalle chitarre elettriche la seconda.
Cinque canzoni di qui, cinque di la, come vuole la regola dei dischi in vinile. Dieci gioielli. Sulla prima facciata vengono rievocati non solo i cori noti, che riportano allo stile frizzante e romantico dei citati R.E.M., Decemberist e bella compagnia (Rescue Me, Rainbow), ma anche si riconoscono gli ingredienti amati dei dischi di CSN&Y (Time To Go) dei Beatles (Everywhere You Go) e persino di Simon & Garfunkel, il tutto senza mancare di personalità.
La seconda facciata fa cantare le chitarre elettriche. Mauro Sampedro fa suonare le sue sei corde come un gruppo surf californiano, nella potente, evocativa ed esaltante Dangerous Road, che infatti alla fine porta alla mente anche il west di Ennio Morricone che è esplicitamente omaggiato nello strumentale lento che prende il titolo di Morricone, colonna sonora per un western della fantasia.
Hate & Love è rock'n'roll, Rise Up è un anthem, On The Verge Of Insanity è un hit.
Evidentemente Hernandez & Sampedro ci tenevano a marcare, con una linea decisa, la differenza fra il passato ed il presente. Ma io credo che perfino meglio sarebbe stato shakerare le canzoni, che in realtà si fondono perfettamente, e che diverse alla fine non sono. Perché se il disco è di una bellezza commovente, diventa ancora più bello ascoltato in shuffle, in ascolto casuale, lasciando che le chitarre elettriche ci facciano danzare fino al cielo, e che quelle acustiche ci lascino chiudere gli occhi, sognanti.
Bella l'idea di far udire, fra i brani, il rumore della puntina che gratta i solchi; un modo per sottolineare le nostre radici di rockers.
Come direbbe Woody Allen, non ci sono classifiche nell'arte; le graduatorie vanno bene per l'atletica leggera e per il baseball. Ma al netto di questa verità, Dichotomy è il disco manifesto della scena di Little Italy. Que Viva Hernandez y Sampedro!
In California sarebbero al numero 1 delle classifiche, e dovremmo spendere un biglietto da 100 dollari per vederli suonare in uno stadio.
Hernandez & Sampedro : The Blue Cut
1. Dangerous Road
2. Rescue Me
3. Hate & Love
4. Rainbow
5. Morricone
6. Get Up From Your Grave
7. Rise Up
8. Time To Go
9. On The Verge Of Insanity
10. Everywhere In The World
giovedì 10 marzo 2016
Daniele Tenca Love Is The Only Law
Daniele Tenca è un elegante bluesman di gran classe: the Duke of Italian blues. E non smette di crescere disco dopo disco. Live From The Woking Class richiamava le chitarre brit blues dei Bluesbreakers e la ritmica dei Blasters. Wake Up Nation scivolava nella notte fra lo Springsteen di State Trooper ed i Suicide.
Love Is The Only Law (che gran titolo!) alza ancora l'asticella, segnando una volta di più il meglio dell'artista milanese. Un blues notturno, laidback, sussurrato fra swamp, bajou, John Campbell, Mason Ruffner e JJ Cale.
Love Is The Only Law, è la canzone che apre e chiude il disco. Lo apre con un blues acustico che porta alle origini nella musica afroamericana, fra Cotton Belt e monti Appalachi. Lo chiude con sciabolate di chitarra elettrica. Nel mezzo si viaggia fra folk, blues a la John Lee Hooker, ballate a la Stones, boogie afosi, ritmi che strisciano come serpenti nel bajou sotto una luna piena, danze voodoo. L'evocazione del loup garou.
Bello davvero, da ascoltare a ripetizione. E chissà come sarà ascoltarlo nelle notte afosi d'estate...
P.S.: un'altra produzione marchiata Route 61.
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