lunedì 2 settembre 2013
fanzine
Abbiamo fatto il punto del primo anno di Little Italy con una fanzine di otto pagine in formato pdf. Un regalo per i nostri lettori, da scaricare a questo indirizzo.
Long may you run...
mercoledì 28 agosto 2013
Cesare Carugi > Pontchartrain
Con il suo disco d'esordio Cesare Carugi, aveva messo in chiaro di candidarsi al ruolo di miglior autore nazionale di canzoni. Pontchartrain, in questo finale d'estate 2013, conferma tutto il suo talento e aggiunge qualche cosa. Aggiunge l'accompagnamento di una band di rock delle radici come i Mojo Filter, ed aggiunge la straordinaria atmosfera rarefatta, nebbiosa, romantica, che accompagna l'ascoltatore dalla prima all'ultima delle dodici tracce di un album rock che sa di legno, terra, cielo, nuvole e della malinconia del lago della Louisiana da cui prende il titolo.
Non solo un grande autore ma ha anche una grande voce, Cesare, una voce profonda, vibrante, evocativa, abbastanza personale da non ispirarsi a nessun cantante né oltreoceano né oltremanica - ma se proprio dovessi fare un nome per dare un'idea al lettore, quel nome sarebbe Lloyd Cole.
Parte forte con le chitarre elettriche di Troubled Waters, che pompa come un John Hiatt d'annata. Poi sono ballate su ballate, chitarre acustiche cesellate dai tocchi di un'elettrica (come in Long Nights Awake) o un violino (Drive The Crows Away). Ballate appassionate (Carry The Torch) e gighe infuocate (la title track). Quando arrivando alla dodicesima traccia già siamo convinti di aver messo le mani su uno dei migliori dischi rock dell'anno, Cesare ci accomiata assicurandoci che We'll Meet Again Someday, in un trionfo, un brano che potrebbe essere uscito dalla penna di zio Bob (Dylan) - o come dice Zambo, di John Prine - che se Cesare fosse americano non mancherebbe la top ten di Billboard.
Nessun amante della musica rock, che lo sia del West, del Village o di Camden Town, può permettersi di non ascoltare questo Pontchartrain. E difficilmente non se lo porterà a casa, per trovargli un posto speciale nella propria raccolta di dischi.
martedì 30 luglio 2013
Lorenzo Bertocchini > Bootcut Shadow
Anche se il campanello di casa è a Varese, Lorenzo Bertocchini è un musicista noto sulla scena dei songwrites della east coast, quella del Greenwich e di Asbury Park, dove Lorenzo è di casa. Con i suoi Apple Pirates aveva registrato l’ottimo Uncertain Texas un paio di anni fa. Oggi torna con un altro album da urban cowboy, Bootcut Shadow. Il disco gira attorno ad una grande ballata elettrica, la lunga ed affascinante Cowboy che apre il disco, sottolineata da un assolo di sax di Phil Brontz. Lorenzo ha una grande voce e una ottima band, e le sue canzoni sono brillanti, e non possono non portare alla mente l’atmosfera di Steve Forbert.
Bertocchini canta in inglese e gli piace raccontare delle piccole cose della vita quotidiana, con un pizzico di humor e strizzar l’occhio al pubblico. Probabilmente canzoni sulla suocera in auto (ma ci aveva già pensato Springsteen), sulla fidanzata che prende la patente ma non guida poi tanto bene, sul raffreddore funzionano bene sul palco dei club americani, e strappano una risata al pubblico. Però la musica rock vive anche di una sua epica, e su disco questi temi abbassano un po’ la tensione: ai tempi dei vinili probabilmente avrebbero trovato posto come retro dei singoli. Il meglio piuttosto salta fuori nelle ballate romantiche come la citata Cowboy, Payphones e Four In The Morning. Belle le due cover, Coffee Break di Willy T. Massey e Workin’ At The Car Wash Blues di Jim Croce. I Remember è un duetto springsteeniano con Jennifer Sofia, More and Less cita Jackson Browne, la conclusiva On A Night Like This è un omaggio a Dylan.
Un ottimo cantautore rock, un disco brillante.
sabato 27 luglio 2013
Luca Rovini > Avanzi e Guai
Luca Rovini è un giovane toscano che di (secondo) mestiere, quello della passione, fa il liutaio ed il cantante. Costruisce chitarra su misura e ci suona il folk, il blues, la musica delle radici. Cantante folk a modo suo: folk americano del sud cantato in italiano. Cita Bob Dylan (credevo che Scoppia la testa, il brano che apre il disco, fosse del padrino americano), si ispira a Bennato, a De Gregori, a Rino Gaetano, in un’occasione (Sguardo di Pietra) anche a Mannarino. I suoi temi sono quelli degli hobos: la strada, la polvere, la strada, le persone, la strada, la vita, la strada, l’amore. Minimale, intenso, divertente, Avanzi e Guai è un disco che non si prende sul serio fino in fondo, ma ha la sola pretesa di divertire. Lui, Luca che lo canta e lo suona assieme al chitarrista Claudio Bianchini, e noi, il pubblico che abbiamo la ventura di ascoltarlo, il disco o il live show. Se dobbiamo reinventarci il rock a dispetto dei media, delle radio, della TV, delle riviste, di questi tempi senz’anima per banchieri e truffatori, le nostre radici partono anche da qui, dal folk da respingenti di Luca “Woody” Rovini.
P.S.: l’ultima traccia, strumentale, si intitola Late Night Blues For Willy DeVille.
Blue Bottazzi
Il sig. Luca Rovini, di Cascina in provincia di Pisa, capello rock, occhiali a specchio e basette alla Tony Joe White prima maniera, di mestiere fa il geometra, e nella sua professione gode di molta stima. A tempo perso Luca si diletta a vestire i panni del cantautore ed a costruire chitarre, da liutaio autodidatta ma che sa il fatto suo. Ed entrambi le passioni musicali amatoriali cominciano a dare i loro frutti. “Avanzi e Guai”, bello il titolo che hai dato al tuo album, maestro, ma, considerando che su dieci brani ben otto evocano, percorrono, sognano, benedicono, maledicono e bestemmiano la strada, in senso reale e metaforico, forse sarebbe stato meglio dedicarglielo! Devo dire che, per quel poco che conosco il personaggio (un amico, purtroppo ancora e solo, virtuale), il lavoro, autoprodotto, da lui stesso registrato e masterizzato, sembra un compendio di tutto ciò che ha ascoltato ed ascolta, dei suoi musicisti preferiti, aree geografiche americane comprese. In tutti brani, firmati di suo pugno, ci vedo e ci sento il Dylan con chitarra acustica a tracolla ed inflessione di voce dei tempi pre-elettrici, tracce del suo beniamino Willy DeVille, la crema del cantautorato texano della fine degli anni Settanta (gli artisti introdotti dal Mucchio, per intenderci), i musicisti di strada (appunto!), qualche riff di blues rubato più ai bianchi che ai neri e persino, perché no, i menestrelli nostrani romani, napoletani e lombardi. Ed uno stillicidio di emozioni che sprizzano in ogni direzione, tanta è la partecipazione ed il coinvolgimento mostrati dall’artista in ogni istante. Mi piace, e molto, la chitarra solista slide ed il dobro (manco a dirlo costruiti dal nostro), nelle mani dell’amico di lunga data Claudio Bianchini: hanno un che di arcaico, semplice (ma solo in apparenza) ed immediato e si dimostrano efficacissimi, con note vellutate o graffianti, molto spesso in completa sintonia coi testi rigorosamente in italiano e quasi sempre introspettivi con scarsi agganci al territorio di provenienza (come invece farebbe supporre la bella copertina vintage). Le composizioni sono notevoli: le mie preferenze vanno a “Scoppia la testa”, “Sporca danza”, “Tra la polvere ed il cielo” e, con particolare riguardo, alla strumentale “Late Night Blues, For Willy DeVille”, un omaggio al compianto artista, molto cooderiano nella struttura e nelle atmosfere, eseguito da Luca in completa solitudine. Forse, e questa è solo un’impressione personale e non una critica, i brani risultano troppo lunghi in un album dove l’accompagnamento acustico ha un parte predominante: nello spazio di quattro o cinque minuti di acustica e voce, pur ravvivato ed intercalato dal guizzo delle parti soliste, se non sei un mago rischi di annoiare a morte l’ascoltatore. Tirando le somme si ascolta un bel disco, piacevole, spontaneo, a volte innocente, a volte sarcastico con punte di ironia ed autoironia, anche se non del tutto originale. Reperibile dal primo maggio in digitale su iTunes, Amazon, ecc. Porgete orecchio, noi intanto “ci vediamo stasera su una vecchia strada… blueeeee…s…”.
Pierangelo Valenti
martedì 26 marzo 2013
Winterland, Cesenatico (Miami and the Groovers)
Non c’ero al Winterland di San Francisco il 25 novembre del 1976, ad assistere all’ultimo concerto di The Band, con una tonnellata di ospiti loro amici, da cui Martin Scorsese trasse il film The Last Waltz. Ma ero il 23 ed il 24 marzo 2013 al Teatro Comunale di Cesenatico per No Way Back, il concerto per registrare il disco ed il film dal vivo di Miami & The Groovers, con gli ospiti loro amici.
Il paragone non è peregrino, anche se The Band chiudeva i battenti mentre i Groovers sono in pieno decollo, e se i primi ed i loro amici erano le più celebri rock star d’America questi sono i più amati rocker della scena di Little Italy. Una cosa sicuramente è in comune: la passione, quella della band e quella del suo pubblico. È un’esperienza a cui non sei abituato, nemmeno se sei nel rock da quarant’anni come me, quella del rapporto fra Miami & The Groovers ed il proprio pubblico. Sold Out da settimane, già da ore prima dell’inizio dello show, in un’aria di mare fredda e piovosa da tramontana, si avvicinavano al teatro i fan, e li riconoscevi subito: sorridenti, ragazzi dai venti ai sessant’anni, zainetti, fidanzate, mogli, figli, si percepiva l’occasione importante, della celebrazione, della festa rock. Il tempo di ritirare i biglietti, riempire un po' lo stomaco con una piadina e poi erano tutti al banco del merchandising, a salutarsi, sbirciarsi, informarsi, sorridersi, cercare con gli occhi i musicisti, prima di prendere posto nel graziosissimo teatro dove in tanti lavoravano da una giornata perché tutto funzionasse e alla fine potessimo celebrare il ricordo dell’evento con un disco e magari un film.
Tanti ospiti, ad accogliere musicalmente il pubblico (fra gli altri Daniele Tenca il primo giorno ed Hernandez & Sampedro il secondo) e poi a dividere il palco con la band.
Un anno prima Miami & The Groovers presentavano al proprio pubblico nello stesso teatro il nuovo disco, Good Things, cose buone, buone nuove. Già allora erano Local Heroes, nomi importanti sulla scena dell’East Shore. Da allora un endless tour di cento show in un anno, e l’ottima accoglienza del disco, hanno ampliato il numero dei fan, del pubblico che li ama, che li segue nei teatri come nelle birrerie fino ai concerti sulla spiaggia, un pubblico che è parte della loro stessa scena, delle loro serate, della loro vita, persino dei testi delle loro canzoni. Così eccoli in piedi, con le magliette, a cantare a squarciagola i cori, a riprendere in coro le canzoni dopo che sono terminate per far tornare Lorenzo Semprini, il cantante, al microfono, un po’ al contrario di quello che accade normalmente.
Nonostante la perfetta rodatura dei cento show in un anno, Lorenzo & i Groovers salgono sul palco con il cuore che batte a mille, perché sentono l’importanza dell’evento, oltre che la presenza delle telecamere. Per questo la prima serata (il sabato) è più “festosa”, con qualche inconveniente tecnico e con tanta voglia di piacere e di far festa, fino ad invitare il pubblico sul palco per cantare (e registrare) l'inno di We’re Still Alive. Più potente la seconda serata (o per meglio dire: il pomeriggio della domenica), con la band più rilassata e di conseguenza più solida e coesa, più cool e meno piaciona, con versioni di ogni canzone migliore che su disco, con qualche vertice come l’iniziale Always the Same, con gli scatenati ed applauditi assoli di chitarra di Beppe Ardito (che comprendono persino citazioni di Chuck Berry e Jimmy Page), con il gran lavoro di tastiere di Alessio Raffaelli (in comune con un’altra band di culto della scena di Little Italy, i Cheap Wine di Pesaro), con il boom boom implacabile dei tamburi di Marco Ferri, un vero robocop del ritmo, che lungi dallo stancarsi avrebbe proseguito lo show (di tre ore per set) per altre dodici!
lunedì 25 marzo 2013
dove abita il rock?
Non mi pare che il rock siano i collezionisti, quelli che acquistano le preziose ristampe in edizione speciale in vinile, quelli che possiedono l’edizione canadese e quella americana, quelli che leggono i cataloghi degli importatori. Nemmeno gli audiofili noiosi dello spettro sonoro e della separazione degli strumenti, e tanto meno gli hard-core fan, come quegli springsteeniani che seguono gli E Streeters anche all’estero ma poi non vanno a vedere altro e non acquistano altro, che a vedere Carolyne Mas arrivata da lontano eravamo in trenta, mentre loro fanno il karaoke con Thunder Road…
No, il rock sono quei ragazzi, dai venti ai sessant’anni, che abbiamo incrociato a Cesenatico allo show di Miami & the Groovers, quelli che fanno uno, dieci, cento, duecento chilometri per supportare la loro band. Quelli che amano il rock, che lo ascoltano dove possono, che se possono comprano il disco, che la sera non stanno in casa a guardare la TV ma escono a cercare musica e a cercare la vita perché, come dice Lorenzo in Merry Go Round, la vita è un giro di giostra che vale la pena di provare a vivere, con gli inevitabili errori e dolori -- non di limitarsi a sopravvivere…
mercoledì 13 febbraio 2013
Hernandez & Sampedro > Happy Island
Mentre la scena rock americana e quella anglosassone languono, la scena rock italiana anglofona non smette di crescere e dimostrare energia e talento. Un ribollente vulcano di musica indipendente che, libera dai lacciuoli dei commercialisti delle case discografiche e della necessità di rincorrere una commercialità che non esiste comunque più a nessun livello, sforna a getto continuo nuovi talenti e ottimi dischi. Ma neanche i miei sogni più selvaggi potevano prepararmi al suono che esce dal CD Happy Island (Isola Felice) del duo Hernandez & Sampedro. Avete presente Decemberists, R.E.M., Counting Crows? Potreste raccontarmi che è il loro disco che sto ascoltando, ed anche in questo caso si tratterebbe di uno dei loro più soprendenti lavori: una fusione di cristalline chitarre acustiche ed elettriche, evocativi cori ricchi di energia, intense melodie dipinte dei colori del cielo infuocato del tramonto.
Luca Hernandez Damassa ha una voce degna di Michael Stipe, Mauro Sampedro Giorgi lo affianca ai cori e alle chitarre mentre Giuliano Juanito Guerrini e Guido Minguzzi li accompagnano al basso, batteria, percussioni e tastiere. Le canzoni, tutte belle, sono opera originale del duo. Il suono è semplicemente perfetto, a dimostrazione che quando ci sono talento e passione non sono necessari studios a Hollywood, budget milionari e produttori rinomati per creare gioielli musicali; anzi, probabilmente è più vero il contrario. Il disco è autoprodotto dal duo indie rock di Ravenna e non c’è nessun indizio che non si tratti del più professionale dei lavori di una band americana.
Le canzoni sono dieci, come ai tempi dei Long Playing quando ce ne stavano cinque per facciata, tutte di altissimo livello, nessun riempitivo. Turn On The Light, sottilmente malinconica, potrebbe essere una bella bella canzone dei R.E.M.. Don’t Give Up On Your Dreams è un energico folk rock che evoca il west di Morricone. Happy Island è un delizioso lento con cori west coast ed una chitarra elettrica che naviga nell’anima. She’s a Woman è dolce, malinconica e intensa. The Sky the Water and Me sembra un hit radiofonico dei R.E.M.. Rain Doesn’t Fall è infuocata, con un gran accompagnamento di chitarre (“la pioggia non cade dentro la mia anima”).
Ray Of Light è una di quelle deliziose ballate californiane che si aprono con un gioco di percussioni e chitarre acustiche e cori. Cold Cold Cold in This Town è energica ed evocativa. I cori di Kinky Queen “when I found you, when I found you…” mi danno i brividi. The Hardest Way chiude il disco.
Queste canzoni hanno rinnovato in me la sorpresa e la delizia e l’ingenuo entusiasmo e l’evocativa energia di quando da ragazzo ascoltavo per le prime volte i vinili californiani marchiati Reprise o Asylum.
La scena del rock anglofono di “Little Italy” è viva e vegeta e continua a crescere, e questo Happy Island mi pare il suo miglior pargolo a tutt'oggi (disco dell’anno e dell’anno scorso e di quello precedente non solo della scena italiana, ma di tutta quanta la scena rock...)
Fidatevi: indipendentemente dal fatto che sia un prodotto italiano, americano o australiano, non fatevelo scappare, dischi così se ne sentono pochi. E se non mi credete, ascoltatelo comunque: Hernandez & Sampedro vi sorprenderanno e vi delizieranno.
P.S.: dove comprare il disco? Dal 1 marzo su Amazon, iTunes oppure chiedete al vostro venditore di dischi di ordinarlo al sito del gruppo.
PS2: il disco è stato ristampato dalla Route 61 di Ermanno Labianca.
Blue Bottazzi
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