mercoledì 22 aprile 2015

Francesco D’Acri > Over The Covers


Sono stato, in un certo senso, testimone della nascita di questo disco, o almeno di una delle occasioni che hanno condotto Francesco D'Acri a registrarlo. Ero a Pisa ed ho avuto il privilegio di essere accompagnato da Francesco, Luca Rovini e Andrea Giannoni (ognuno dei quali, fra parentesi, ha da allora registrato un nuovo disco) nella presentazione di un mio libro, Long Playing, quello che racconta la storia del Rock. In quella occasione Francesco mi colpì con una cover pressoché perfetta di Ring Of Fire di Johnny Cash. Quello che mi impressionò sopra ogni altra cosa fu la sua voce, solida, potente, profonda, calda, rock. Gli dissi che avrebbe dovuto registrare un disco di cover, e poco tempo dopo Francesco mi scrisse che lo stava facendo. Ed infine eccolo qui: Over The Covers, 16 classici della nostra musica, filtrati dalla sua sensibilità.
Avessi avuto l'opportunità di produrre il disco (ma abito lontano dalla Toscana e non sono un produttore), avrei suggerito a Francesco un lavoro essenziale e minimale, ispirato al lavoro fatto da Rick Rubin per gli ultimi dischi di Cash, quelli della serie Americana. O magari, più home made, un disco come quelli del Billy Bragg d'annata, per sola voce e chitarra elettrica o quasi. Insomma, una produzione che sottolineasse la voce, privilengiandola e rendendola protagonista.
La scelta di Francesco è invece eclettica: sedici canzoni molto differenti l'una dall'altra (si va addirittura da Jerry Lee Lewis ai Joy Division), a rappresentare probabilmente le sue cose favorite, o almeno quelle che trova più adatte al timbro forte e profondo della sua voce, registrate con chitarra, violino, armonica, pianoforte, batteria, Hammond e tutto quanto. Proprio per questo il disco è molto vario, sempre molto divertente, ricco di energia e di passione, ma con picchi e valli.
La cover di Ring Of Fire, la canzone con cui il disco a mio parere si sarebbe dovuto aprire, è semplicemente memorabile, con l'armonica di Giannone che rimpiazza assai in meglio le trombette messicane della versione originale, con una chitarra dal ritmo molto groove e soprattutto la voce di D'Acri, senza rivali nel panorama nostrano. Altrettanto stupefacente è la cover di Shelter From The Storm dal Blood Of The Tracks di Dylan, in un riuscito arrangiamento a due voci alla Everly Brothers. O meglio, sarebbe, se non fosse per la scelta di introdurre una voce narrante che recita i testi in italiano. Probabilmente un buon escamotage per rivolgersi a un pubblico più vasto (e magari anche più giovane), anche se io avrei preferito di gran lunga il solo cantato inglese. Ma può essere una questione di gusti, o di scelte. Against The Wind di Bob Seger è splendida, anche perché si discosta decisamente dall'originale, che viene riscritta con un arrangiamento lento per solo piano che la rende una ballata da pelle d'oca.
Un altro highlight è Sea Of Heartbreak, e sono pronto a saltare con i miei stivaletti da motociclista sul tavolo di Bruce Springsteen per dichiarare che la versione di D’Acri è decisamente più viva di quella di Bruce con Rosanne Cash.
Questi i miei brani preferiti.
Sempre a proposito di Springsteen, trovo solo coraggioso il tentativo di rifare Glory Days e Thunder Road, la seconda addirittura nello stesso arrangiamento acustico del Boss. Avessi dato un consiglio, avrei proposto a Francesco di fare con la sua voce un brano rockabilly come Johnny Bye Bye o magari Johnny 99. Comunque trovo che ci sia un po' di Suicide nell'organo di Glory Days.
Le versioni leggere di Blue Suede Shoes e Great Balls Of Fire non mi convincono, mentre la bella Forever Young (l'altra cover di Dylan) è addolcita dal violino (di Chiara Giacobbe). Love Will Tear Us Apart spariglia le carte con un brano pop dei Joy Division, mentre Story Of My Life dei Social Distortion è una bella sorpresa, e se non regge il confronto con il groove indiavolato dell'originale, è pur sempre una bellissima e misconosciuta canzone.
Con un incedere irresistibile, Passing Through con un doppio salto mortale riporta l'ascoltatore sul country rock a la Elvis. Don't Let Us Sick è un omaggio al grande Warren Zevon, e fa piacere.
Un gran bel disco, Over The Cover. Da ascoltare, da avere, da tenere in auto e far suonare a tutto volume on the road. Un disco che trasmette passione e piacere. Un disco senza complessi d'inferiorità, che fa onore al rock anglofono italiano. Io lo consiglio.

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domenica 11 gennaio 2015

il meglio del rock italiano di Little Italy nel 2014


Per forza di cose la scena musicale rock italiana vive più di una eccitante scena di live show ed interminabili “endless tour” che di dischi, perché di dischi se ne vendono sempre meno di gruppi americani ed inglesi, figuriamoci di eroi locali. Ma a dispetto dei volumi di vendite, è sorprendente la qualità di questi dischi, che spesso oltrepassa quella dei modelli di oltreoceano.
Le uscite sono tante, underground, e non è certo che io le abbia ascoltate tutte. Fra i dischi che conosco ho voluto estrarne solo tre, per un podio ideale di Little Italy. Eccoli:

(1) Chris Cacavas & Edward Abbiati > Me and the Devil

« Frutto della collaborazione democratica fra il mitico Chris Cacavas dei mai abbastanza rimpianti Green On Red ed Edward Abbiati dei nazionali Lowlands, è un disco che non ti aspetti, che ti colpisce, ti sconvolge, ti arruffa, un disco che evoca nostalgie di un passato romantico fatto di dischi degli anni ottanta come Gravity Talks, The Lost Weekend, True Believers, Beat Farmers, (Fleshtones), (Del Fuegos), come pure il convitato di pietra, i Crazy Horse di Neil Young » (leggi la recensione)

(2) Mandolin Brothers > Far Out

« Far Out, nella livrea verde che non può non ricordarci i pomodorini acerbi dei Little Feat, è bellissimo. Forse il vertice creativo della band ed uno dei migliori dischi anglofoni uscito nel nostro paese. Prodotto da Jono Manson, e con collaboratori come John Popper all'armonica ed all'apporto di una horn section, Far Out si eleva sui suoi modelli per creare un solido ed evocativo rock a marchio registrato delle chitarre, dei cori, delle armoniche, dei fiati, uno rock impressionista che dipinge bajou, delta, salici piangenti e i vasti spazi aperti dell’ovest » (leggi la recensione)

(3) Lowlands > Love, etc...

« Un disco spigliato, spensierato, di piccola sottile poesia e tanta allegria. Edward che canta e suona la chitarra acustica sopra un evocativo accompagnamento di una sezione di fiati e persino di archi, che non può non evocare lo shuffle della E Street Band di Greetings e di The Wild & The Innocent, con la bella ritmica diretta dal Rigo Righetti, la fisarmonica, la chitarra elettrica e tutto il resto. E, lasciatemelo dire, anche il Van Morrison di Moondance. È poco? » (leggi la recensione)

Questo non toglie che di dischi e di canzoni buone ne siano uscite molte altre nel 2014. Un paio di esempi: Mexican Dress dei Red Wine Serenaders di Veronica Sbergia e Max De Bernardi, e The Fairy Has Your Wings (For Valeria) dei Cheap Wine.

martedì 23 dicembre 2014

Antonio Rigo Righetti


« Amo il mio mestiere. 140 date circa, tra esibizioni acustiche, in duo, in trio o quartetto...
un buon anno questo 2014: tanta strada, tante persone appassionate incontrate, tante canzoni, la reunion dei The Rocking Chairs, un nuovo cd in uscita a gennaio, precisamente il 15, e tanti sogni e idee per il nuovo anno.
Certo, se non fosse che amo questo lavoro alla follia, il gioco non varrebbe la candela... le rinunce da accettare e fare sono tante, tantissime...
ma qualcuno deve pur farlo...
non è possibile che l'aspirazione massima del musicista medio italico sia fare Sanremo o un reality; non è possibile che il sogno divenga quello di farsi giudicare da qualcuno che non ha anima ma p.r.; non è possibile affondare ancora più profondamente nelle sabbie mobili dell'ignoranza...
Sapere che accanto a me, oltre alla mia Luce e al mio rapper scatenato ci sono
Robby Pellati
Frank Ricci Group
Franco Anderlini
Mel Previte
Edward Abbiati
Tommy Graziani
e tutti quelli coi quali si suona aiuta...
Così come aiuta sapere che la vostra stima è immutata,
che non giudicate la musica coi numeri ma dalla quantità di anima che viene esposta,
che non vi interessa di doverci venire a scovare nei luoghi più impensati...
Grazie a tutti voi, cari rockers e rockeuse, this one for you...
segnatevi queste due date
3 gennaio 2015 RIGO'S BIRTHDAY LIVE@PERNILLA MODENA superJam Band all night
5 gennaio 2015 RIGO'S BIRTHDAY LIVE@STONES CAFE' si suona dalle 3 alle 4 ore...rock on! »

Antonio Rigo Righetti

lunedì 22 dicembre 2014

Lowlands > Love etc...


Questo 2014 è di certo l’anno di Edward Abbiati. Dopo l’ottimo disco in coppia con Chris Cacavas dei Green On Red, quel Me and the Devil che riporta alla mente l’epopea della new wave del west degli anni ottanta, lost week-end e compagnia, ora Ed e la sua band, i Lowlands di Pavia, se ne escono con lo splendido Love etcetera.
Se esiste un sound di Little Italy, è il suono di questo disco. Qui c’è tutta l’ispirazione del Village e del Jersey Shore degli anni settanta, il suono di Steve Forbert, Willie Nile, Elliot Murphy, Bruce Springsteen & the E Street Band. E naturalmente il suono della SS45, la via Emilia, e dei Lowlands.

Un disco spigliato, spensierato, di piccola sottile poesia e tanta allegria. Edward che canta e suona la chitarra acustica sopra un evocativo accompagnamento di una sezione di fiati e persino di archi, che non può non evocare lo shuffle della E Street Band di Greetings e di The Wild & The Innocent, con la bella ritmica diretta dal Rigo Righetti, la fisarmonica, la chitarra elettrica e tutto il resto. E, lasciatemelo dire, anche il Van Morrison di Moondance. È poco?

Le canzoni sono davvero belle, è un disco che lascio suonare di più sullo stereo, a ripetizione, e non c’è un ascoltatore che ne rimane indifferente.

Bella l’introduttiva How Many, che più delle risaie pavesi disegna lo skyline di New York City.
Bella Love Etc..., che si apre vagamente come la Can’t Help Falling In Love fatta dal Boss.
Delicata I Wanna Be, lievemente jazzata come lo shuffle della E Street dei primi giorni.
Divertente You Me The Sky and the Sun, vagamente rock’n’roll degli happy days.
Intima You and I, cesellata da piano, violino e violoncello.
Un rag metropolitano Happy Anniversary, con i fiati e i cori.
Cinematografica Can’t Face The Distance, con il lamento di un armonica.
Una ballata vivace Wave Me Goodbye.
Bluegrass urbano My Baby.
Orecchiabile e radiofonica Doing Time.
Una ballata al tramonto Still I Wonder.
Poetica la fisarmonica di Goodbye Goodnight, un brevissimo lento che prende commiato lasciandoci la pelle d’oca:

« Addio, buona notte, non c’è niente che avremmo potuto fare 
abbiamo fatto del nostro meglio per costruire il nostro nido 
addio, buona notte... »

Un disco che sarebbe un gran lavoro anche se fosse americano. Anzi, soprattutto se fosse americano. Perché in America di dischi così ormai se ne fanno pochini. Ascoltatelo.



giovedì 20 novembre 2014

Paura di volare


Cari musicisti italiani, 
siete molto bravi. Sapete suonare, a volte sapete cantare, spesso sapete scrivere le canzoni. Però non ne volete sapere di inventare: i vostri arrangiamenti sono rigorosamente quelli dei vecchi modelli, le vostre formule sono rigorosamente ortodosse. 
E l’invenzione? Ed il coraggio? Perché non vi viene voglia di provare coro differente, uno strumento bizzarro, una canzone che non sia già stata scritta nel New Jersey? 
Avete mandato a memoria Springsteen, Willie Nile, Steve Forbert. Perché non ascoltare anche Sgt.Pepper (non serve troppo coraggio: dopo tutto ha quasi 50 anni...) ?

sabato 15 novembre 2014

la première del reunion tour dei Rocking Chairs


È un umido pomeriggio di una stagione che si appresta a diventare inverno, quello nel quale punto verso Modena, per un’occasione molto speciale. Siamo a metà novembre e non manca poi molto a Santa Lucia, la giornata più breve che ci sia. Ed infatti viaggio già al buio, lungo la A1 affollata come al solito di anime rassegnate di pendolari delle quattro ruote che si muovono per questa via Emilia del nuovo secolo.

“ Luci che si accendono sulla strada e via, i fari delle macchine lasciano una scia
di desideri quasi realizzati, di verità e bugie
su questa antica carreggiata, su queste due corsie, che sono tue e mie...” 

Verità e bugie... l’ultima volta che ho percorso questa strada per la stessa destinazione ero con la mia Musa, oggi sono solo. Anche se gli anni mi hanno insegnato a non dar fiducia alle parole delle donne (che più che per dire servono ad ottenere, fosse anche solo consolazione), mi prende un po’ di malinconia in questa solitudine inscatolata sulla mia vecchia auto fra tante altre auto - ancora di più quando addento un panino molle all’autogrill “Secchia est”.
Ma il posto dove sono diretto non è l’Heartbreak Hotel, ma è invece uno dei luoghi più deliziosi che mi sia dato di conoscere: si chiama proprio Il Posto, è la bomboniera di Rigo Righetti e di Francesca Vecchi, un rifugio di cinema, di arte, di musica. Un Posto dall’aria cinematografica, fra stanze in cui sono stipati costumi di ogni epoca, scarpette rosse femminili esibite in tortiere di cristallo, e specchi con scritte inneggianti a Willy DeVille ed i Sex Pistols. Nel salone ci sono il palco, gli amplificatori, il giradischi e le file di sedie e, of course, gli amici.
Il centro di Modena è come sempre affollato di giovani, e questo fa bene al cuore. Salgo gli scalini ed eccomi fra amici speciali e qualche VIP. Ci sono volti noti, artisti, fotografi, disegnatori, appassionati, ma soprattutto ci sono Graziano Romani, Robby Pellati, Rigo Righetti, Mel Previte, Max Grizzly Marmiroli e Franco Borghi. Sono i Rocking Chairs, un nome perso nella leggenda, il gruppo capostipite di tutta la vivace scena del rock anglofono italiano di questi anni duemila, che mi piace chiamare di Little Italy.


Nel 1990 sullo stereo della mia auto aveva un posto fisso la cassetta di No Sad Goodbyes, il loro terzo disco. Erano anni di crisi d’astinenza per Bruce Springsteen, che aveva sciolto la E Street Band e stava registrando il suo disco solista. I Rocking Chairs facevano sognare a noi rocker tutta la mitologia del rock romantico ed urbano di quegli anni, e ascoltando il loro disco, a circolare in auto per la via Emilia mi sembrava di percorrere la 101 in California o la New Jersey Turnpike sulla costa atlantica.
Ebbero un grande seguito di pubblico e arrivarono a registrare a New York e persino a New Orleans, con Elliott Murphy, Willie Nile, Robert Gordon, Bobby Bandiera. Memorabile la loro cover di Vagabond Moon di Nile. Ed il loro pubblico non li ha mai dimenticati.


Io stesso sono il primo ad aver auspicato il loro ritorno, ed è così un’occasione molto speciale questa in cui almeno un sogno si è sta avverando. Lo show ufficiale della reunion avverrà il 13 dicembre (Santa Lucia!) a Casalgrande, in Teatro (già sold out), ma questa sera di fronte ad un pubblico selezionato di amici invitati si tiene la première, una specie di prova generale.
Quasi per modestia il tema iniziale sarebbe quello di un tributo a Van Morrison, ed infatti lo stereo diffonde le note di Bring It On Home To Me dal vinile It’s Too Late To Stop Now, il capolavoro del rosso irlandese. Ma non è “The Man” che la gente vuole, ma i Chairs.


Così Graziano parte intonando proprio la cover di Sam Cooke, e poi Valery, dal primo album della band, e subito dopo Crazy Love, e si capisce da subito che il gruppo non è mai stato tanto in forma: come il vino buono si è trasformato da un frizzante novello ad un vino importante, di pregio. Xpensive wine. L’intimità del palco favorisce una musica a volume contenuto, dove si capiscono subito le caratteristiche della serata: una band molto potente ma anche rilassata, che pare di sentire i cori dei Little Feat che aprono Waiting For Columbus.
Robby, il batterista che ama la musica lirica, suona il rullante, in un’occasione solo con mani; il sax di Max (sulla destra) e la fisarmonica di Franco (in stereo, sulla sinistra) conferiscono una gran profondità al suono. La voce di Graziano è in forma smagliante, non è mai stata tanto buona e profonda. Mel è il più rockettaro, mentre imbraccia la Telecaster seduto sull’amplificatore. Rigo è un gran bassista, senza complessi di inferiorità verso nessun grande delle quattro corde.


Arriva addirittura Caravan, come nel Last Waltz, con il Graziano che pur seduto scalcia nell’aria. Camden Town, ancora dal disco d’esordio ma in versione rock’n’roll, e quando arriva No sad Goodbyes sono in trance: non l’ho mai udita così bella e di certo non credevo in cuor mio che l’avrei mai sentita dal vivo.
Hate & Love Revisited, Burning ed il gran finale sulla ballata romantica di I Will Be There Tonight.

Graziano ci racconta di aver preso la decisione di essere il cantante di una band mentre tornava in pullman da Zurigo, dopo aver assistito allo show di Bruce Springsteen e la E Street Band all’Hallenstadion. Ma dopo tutti questi anni non ci sono più riferimenti musicali esotici per i Rocking Chairs: né Springsteen, né Van Morrison, né Willie Nile: ora il sound è solo Rocking Chairs certificato al 100%. Una band adulta, piena, ricca, che suona con molta maturità ma anche con tanto entusiasmo. Che sta per riversare sul pubblico per il Reunion Tour per tutto il 2015.
Non me ne vogliano i tanti amici delle band italiane, ma i Chairs sono il numero uno: volano alti. Ed in cuor mio mi auguro che l’intimità sonora a cui ho testimoniato non vada perduta nel festoso rock’n’roll show nei teatri.


Alla fine abbraccio tutti, che mi hanno regalato una grande estasi, che in qualche modo paragono a quella provata per i grandi Roger Daltrey e Wilko Johnson sul palco dello Shepherd Bush all’inizio di questo stesso anno.
Robby Pellati mi fa dono delle sue bacchette, ed io il giorno dopo entro da Music Land per comprarmi proprio un rullante: vuoi vedere che questa magica serata mi lascerà persino di più di quanto immagino?
Ritorno solitario lungo le corsie dalla via Emilia, non la SS9 ma la A1, con la luce della riserva accesa e Jackson Browne sullo stereo.

“Sempre dritto davanti a te, sembra non finire mai
ma quante gomme a terra e quanta nebbia e in mezzo noi
Non fermiamoci finchè un altro giorno ci troverà correndo sulla Via Emilia” 

(le fotografie belle sono di Gabriella Ascari, quelle con un iPhone le mie)


lunedì 10 novembre 2014

Cheap Wine > Beggar Town


Vent’anni e dieci dischi per i Cheap Wine, la più longeva delle band di Little Italy. Partivano nel novanta con un infuocato punk rock ispirato alla scena Paisley Underground dei Dream Syndicate, da cui prendono anche il nome. Il torrido rock delle chitarre è rimasto nei live show, mentre questo Beggar Town è assai più tranquillo, introspettivo, lento, quasi un disco solista di Marco Diamantini, anche se non ho dubbi che le canzoni verranno vivacizzate in concerto.
In sala d’incisione la ritmica è tenuta a freno, così come la chitarra elettrica di Michele (sempre Diamantini) e le sempre ottime tastiere di Alessio Raffaelli. Qualche momento strumentale si elemosina nell’introduzione di Your Time Is Right Now e nel rock’n’roll di Black Man, mentre la voce di Michele arrotola le sillabe inglesi di molte molte parole (ma anche di Springsteen si diceva che scrive testi troppo lunghi). Keep On Playing mi ha portato alla mente persino la PFM degli anni settanta. Da come la vedo io, il disco decolla sul finale, nella eterea ballata di The Fairy Has Your Wings (For Valeria).