martedì 25 aprile 2017

Luca Rovini e Francesco D'Acri


Gli anni settanta sono stati gli anni d’oro della musica italiana. Avevamo Banco e PFM, Finardi e Bennato, Guccini e De Gregori, Perigeo e Napoli Centrale e ancora tanti altri.
Di cantautori oggi c’è più che penuria, le canzoni sono ormai tutta fuffa leggera per un pubblico ignorante. Specie protetta, mi viene da citare solo Massimo Bubola, fra i nomi noti, e Ruben, fra i carbonari.

Luca Rovini e Francesco D’Acri sono per l’appunto due cantautori italiani, toscano di Pisa il primo, milanese il secondo, veterani della scena musicale dei nostri giorni. Musicisti militanti che giorno dopo giorno, notte dopo notte, battono locali, si conquistano il pubblico, traducono in canzoni quello che vedono e quello che vivono.

Luca Rovini (Figure senza età) è un figlio di De Gregori, quello più americano, dylaniano, quello ispirato agli hobo. Arrivato al quarto disco, Figure senza età, ha trovato l’equilibrio del proprio stile. È più profondo e intimo, la voce morbida e armoniosa, i brani sono ballate lente e delicate, i testi sfumati ed evocativi. Fra le righe Rovini canta con il cuore della strada che ha percorso, gli incidenti che gli hanno teso agguati lungo la via, le esperienze che lo hanno atterrato e quelle che l’hanno aiutato a sollevarsi, e nelle parole delle sue canzoni l’ascoltatore può specchiarsi e riconoscersi.
«E pensare che cadevo e di certo non credevo ma è sicuro che cantavo». Alla fine della sua strada ci sono sempre l’amore, la speranza, la voglia di vivere.
«Me lo disse un mendicante, tutto è solo di passaggio, e io scelgo i miei compagni e le strade del mio viaggio».

Francesco D’Acri (Il principio di Archimede) ha una gran voce. L’ha messo in chiaro nel suo recente Over The Covers, dove si confrontava con le canzoni dei suoi eroi, da Johnny Cash a Bob Seger e Bruce Springsteen, uscendone a testa alta. Tutto diverso Il principio di Archimede, un album di canzoni italiane dalle parti di Guccini (ma anche di Bubola, De André e De Gregori). Non c’è America questa volta; gli arrangiamenti, asciutti e sofisticati, girano attorno alla chitarra acustica o al pianoforte ed a una sezione d’archi, violino, viola e violoncello, che conferiscono al lavoro un’atmosfera da musica da camera - che più che l’America può portare alla mente certi Beatles. I suoi testi sono più nascosti, si coglie la gioia di giocare con le parole, ma alla fine è sempre l’anima ferita ad affiorare: «Questa brezza di mare non sa niente di me».

Nessuno dei due dischi ha troppo potenziale commerciale, non ci sono singoli radiofonici. O quasi: Il Principio di Archimede gira nelle orecchie ed ha una confezione sontuosa, Corri uomo corri scorre leggero come un’auto lungo la strada.
Ma sono belli. Se l’ascoltatore, invece che di consumare canzoni orecchiabili, ha voglia di un album da leggere, da scavare, penetrare e da lasciar suonare, questi sono due dischi di canzoni a cui prestare ascolto.

Gang Calibro 77


I Gang (dei fratelli Severini) sono i Clash italiani, ma a differenza dei Clash sono ancora on the road. Calibro 77 è probabilmente il miglior disco rock in lingua italiana dell'anno. È un disco di nostalgia (le cover di canzoni nazionali sono tutte pescate tutte negli anni '70, il decennio d'oro della nostra musica) che guarda però avanti (gli spumeggianti arrangiamenti sono folk elettrici rinforzati dai fiati).
Eugenio Finardi (Sulla Strada), Lolli, De Gregori, Guccini, Bennato (Venderò), Pietrangeli, Manfredi, persino Giorgio Gaber. Bel disco, anche se poi non ce la faccio ad ascoltarlo, troppo doloroso da tanto le cose sono peggiorate per la gente in questo Paese.