giovedì 19 gennaio 2012

Cesare Carugi Here's To The Road



La scena della musica americana suonata dai musicisti italiani si rivela ogni giorno di più una delle vivaci realtà di questi altrimenti intorpiditi anni. Non sono pochi dalle nostre parti i ragazzi che si sentono stretti nella landa dei "navigatori santi e poeti" e sono invece nati per correre sulla Highway 51: Frankie Lucarelli, Lawrence Bertocchini, Daniele Tenca, Miami & The Groovers, Cheap Wine… Sergio Marazzi, Tony Zirilli sono rocker di peso qualsiasi sia la loro spiaggia. Cesare Carugi arriva oggi con il disco d'esordio, ma con un talento di songwriter, una voce solida e un gusto rock che lasciano il segno. Non ho esagerato promuovendo Here's To The Road come il migliore italiano (in studio) dell'anno: il disco è una di quelle opere prime che si impongono. Mi viene da pensare (senza cercare paragoni di merito) a Dire Straits o Del Fuegos. Un disco che appare già maturo e perfettamente realizzato, pur lasciando spazio ad una crescita che il talento di Cesare lascia ben sperare. Il suono ha l'elegante fattura, la bella calligrafia ma anche la bucolica poesia  di un James McMurtry (Too Long In The Wasteland), o di un Michael McDermott, ma non gli è estranea la britannica americanità di un Kevin McDermott (ma che Cesare sia un McCarugi?) o di un Lloyd Cole. Basso, batteria, chitarre soprattutto acustiche, violino a ricamare, una voce robusta e del bei cori. La musica ideale per un road trip.
Il disco si apre con il brano più orecchiabile e radiofonico, che però è anche il meno originale, Too Late To Leave Montgomery, con coretti da west coast, la slide guitar e l'armonica.
È London Rain a dare la misura del talento (ok: talento è la parola chiave della recensione) compositivo di Cesare. Aperta sulle note di Simple Twist Of Fate è una ballata intensa, dolce e ricca assieme, su un ricordo lontano proprio alla Blood On The Tracks.
Blue Dress è una ballatona elettrica malinconica che sa di luna piena e di loup garou su una ragazza assassinata a New York.
Goodbye Graceland (una canzone dedicata ad una star del rockabilly amica del presidente Nixon) scopre le carte di un Carugi che si ispira a Dylan e Prine, ma le cui canzoni scorrono invece dalle parti di duri in giacca di pelle alla Mike Ness, alla Peter Wolf, alla Del Fuegos, alla Tonio K, alla Mitch Ryder. Insomma, la creme del rock delle chitarre. Goodbye Graceland è a tutti gli effetti un gran pezzo Clash London Calling al 100% e reclama che si alzi al mix la ritmica.
Caroline è una bella ballata elettrica su una sfortunata Carolina che cammina sulle orme di una Carolyn (Steve Wynn) o una Mary Jane (Tom Petty). Con un violino alla Desire.
Dakota Lights è un pezzo molto dolce per piano e voce, che sottolinea se ce ne fosse bisogno la personalità della robusta voce di Cesare; una canzone che godrei come una Living Doll (John Eddie) se non cantasse dell'assassino di John Lennon.
There Ain't Nothing Wrong With Going Nowhere ("non c'è nulla di male ad andare da nessuna parte") è il mio pezzo preferito, che spesso si intrufola nei miei pensieri e suona non autorizzato nella mia testa; una ballate morbida ma robusta che racconta come la cultura musicale di Carugi non sia infarcita solo di west coast ma anche di malinconiche nebbie inglesi dell'età di Lloyd Cole & The Commotions e Prefab Sprout. Non credo sia per caso che nella canzone si citino rattlesnakes
L'altro highlight del disco, secondo il gusto di questo recensore, è la bellissima Every Rain Comes To Wash It All Clean, un oscuro e notturno rockabilly che meriterebbe una cover di sua maestà Sir Tom Waits, e che reclama un trattamento cattivo a base di chitarre distorte, megafoni, cori e lamenti cacofonici.
Cumberland è una ballata acustica scritta apposta per chiudere un disco di fine cesello come questo, in duetto con il citato Michael McDermott come ospite (o no?).

Cesare Carugi, Here's To The Road, irrinunciabile per tutti coloro che amano le belle canzoni.

(letto su BEAT)

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