domenica 23 dicembre 2012

Consigli di un cronista stonato agli ottimi musicisti di Little Italy



Bei dischi anche quest'anno, assolutamente. La scena del rock anglofono italiano è sempre ricca di passione e di talento. Ascolto i dischi nuovi di Cheap Wine, Lowlands, Bertocchini, Carugi e penso a quanto siano buoni. Però, siccome sono un rompiballe, e siccome qui su questo blog nessuno mi censura, aggiungo anche un po' di agro al dolce. C'è una solare passione che rende i dischi italiani davvero speciali in un panorama dove mestiere e marketing sembrano farla ormai da padroni. Ma, come direbbe qualsiasi allenatore di terza categoria, c'è spazio per migliorare. Così ho qui due consigli per voi ragazzi.

Il primo: la fantasia. Il rock anglofono di Little Italy ha dei riferimenti precisi. Più ancora di Bruce Springsteen e la sua E Street Band, siete un po' tutti figli di Willie Nile. Mica male, specie il suo mitico disco d'esordio. Però non è obbligatorio costruirsi degli steccati in cui restare, delle rotaie su cui correre, sia pure veloci e decisi. C'è stato un tempo, ed era un tempo meraviglioso, in cui i gruppi rock non si ripetevano, ma sperimentavano. Ogni disco era una cosa nuova, un'esperienza a sé. Una volta era la musica indiana, una volta la psichedelica, un'altra il jazz, ma insomma ogni volta era una cosa mai ascoltata fino a quel momento. Cambiavano persino il look, i vestiti e la pettinatura. Nessuna legge obbliga le canzoni ad avere tre strofe, tre cori ed un bridge. Si può fare di tutto, ed una volta si faceva, anche qui in Italia. Si può jammare, si può fare roba strumentale, si può non mettere il coro, oppure partire con quello e poi cambiare canzone, insomma, non ci dovrebbero essere regole, ma soprattutto non ci dovrebbero essere schemi prefabbricati al cui interno limitarsi a reinventare la ruota. Si può fare un concerto per macchina per scrivere e ottoni. Insomma, va bene il Jersey Shore, ma proviamo ad ascoltare anche Frank Zappa, i Beatles e Mike Oldfield, per citare i primi tre nomi che mi vengono in mente.

Consiglio numero due: il groove. Ogni volta che in auto l'iPod mi trasmette un pezzo italiano, aguzzo le orecchie. Sì perché il suono è accattivante, le note quelle giuste, l'atmosfera emozionante. Tutte le volte dico: che magnifica canzone! Poi succede che la canzone dopo due minuti è ancora uguale, e che dopo altri trenta secondi sono tentato di spingere il tasto "avanti". Il brano infatti non va in salita, ma si spegne in discesa. Una canzone non dovrebbe essere una ripetizione dello stesso tema per quattro minuti, le tre strofe tre cori e un bridge di cui sopra. Dovrebbe crescere. E ci sono due modi. O uno ha la voce con la personalità di Muddy Waters o di Bob Dylan degli anni sessanta e la sostiene come il vento un aliante, e questo si chiama groove, oppure si deve inventare qualche cosa. Il finale non deve essere uguale al principio. Il tono deve salire, gli strumenti aumentare, qualche ingrediente si deve aggiungere. Meglio di tutti se arrivano persino delle note nuove. Mentre pensavo queste parole ascoltavo una cover di Paul McCartney, un teso rock & roll intitolato No Other Baby. Il grande Paul inizia a cantarla con grande tensione, ma nella seconda metà ha un'invenzione: alza il tono della voce. E la canzone termina in un tornado, non sfuma nella noia. Facciamo un patto? Che non sfumiamo più nessuna canzone nel finale?

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